Il settore civile, ovvero residenziale più terziario, in Italia è il maggior responsabile dei consumi energetici nazionali. Negli ultimi trent’anni ha significativamente distanziato gli altri principali settori energivori, quali industria e trasporti, fino ad assestarsi su una quota di più del 40%. La causa è da ricercarsi, come ormai ampiamente dimostrato, nella scarsa efficienza di un patrimonio vetusto ed in condizioni di degrado prestazionale diffuso, che peggiora rapidamente con il tempo. La raccolta sistematica delle certificazioni energetiche avviata nel 2016 dall’ENEA ha messo in evidenza che solamente il 15% degli edifici è in classe C o superiore. Il settore residenziale, in particolare, è quello che presenta attualmente prestazioni energetiche inferiori e la minor permeabilità alle politiche di efficientamento. Dei circa 31 milioni di alloggi presenti in Italia circa 16 sono stati realizzati nel periodo dal 1946 al 1980. È una quota di patrimonio figlia dell’urgenza di ricostruzione postbellica e si caratterizza per una scarsa qualità progettuale, costruttiva e funzionale e per la predominanza di tipi edilizi fortemente intensivi che negli anni hanno evidenziato limiti gestionali importanti. A quest’ultimo aspetto deve aggiungersi, purtroppo, la politica di riscatto dell’edificato residenziale pubblico che ha parcellizzato la proprietà riducendo i margini operativi degli Istituti Autonomi.

Il problema non è solamente italiano, ma continentale. Nell’Autunno 2020 la Commissione Europea ha pubblicato un documento dal titolo fortemente evocativo: “Un’ondata di ristrutturazioni per l’Europa”. La strategia delineata, nella sua ambiziosità, è chiara: per raggiungere la neutralità climatica al 2050 bisogna innescare un meccanismo virtuoso di riqualificazione del patrimonio che porti in circa trent’anni alla sua decarbonizzazione. L’accelerazione da imprimere rispetto all’attuale scenario è notevole se si pensa che ad oggi solamente l’1% degli edifici è sottoposto ogni anno ad interventi che migliorano la prestazione energetica e lo 0,2% è oggetto di ristrutturazioni che possono essere definite “profonde”, ovvero che comportino una riduzione dei consumi di almeno il 60%. La Commissione ha anche individuato alcuni ambiti di intervento prioritari su cui concentrare gli sforzi: rafforzare l’informazione, la certezza e l’accesso ad incentivi per la riqualificazione; garantire finanziamenti adeguati e ben mirati; aumentare la capacità di progettare e realizzare gli interventi; promuovere interventi di riqualificazione completi ed integrati; rendere più sostenibili sotto il profilo ambientale le riqualificazioni; affrontare il problema della povertà energetica e promuovere la decarbonizzazione degli impianti e l’integrazione delle rinnovabili.

Il tema degli incentivi pubblici è, come sappiamo, di forte attualità ed essi rappresentano il principale strumento finora introdotto dallo Stato per incrementare l’efficienza del patrimonio edilizio. Sulla scia degli incentivi per la ristrutturazione, in vigore fin dalla fine degli anni ’90, a partire dal 2007 si sono succedute una serie di misure, spesso rinnovate di anno in anno, per stimolare la realizzazione di interventi di riqualificazione. Fino al 2020 l’effetto di queste misure è stato quello di promuovere principalmente interventi puntuali ed a-sistemici, fra i quali spiccano la sostituzione degli infissi, oltre il 53% di tutte le pratiche presentate, e la riqualificazione dell’impianto di riscaldamento e produzione dell’acqua calda sanitaria, oltre il 25%. La necessità di promuovere riqualificazioni strutturali e non solo interventi puntali ha spinto nel 2020 ad introdurre il Super Ecobonus, altresì conosciuto come 110%. La logica era quella di superare, principalmente negli edifici condominiali, gli ostacoli ad intervenire sulle parti comuni, come le facciate e gli impianti centralizzati. Questi interventi sono diventati conditio sine qua non per far accedere alla massima aliquota di detrazione anche le altre misure fino ad allora incentivate dall’Ecobonus. I dati raccolti dall’ENEA dicono che sono state presentate al 31 marzo 2022 circa 139.000 pratiche per un totale di investimenti di circa 24 miliardi di euro, pari a più della metà di quanto fatto in tutto il periodo 2008-2020 dagli altri meccanismi di detrazione fiscale. A fronte dell’importante cifra economica messa in gioco, in più di un anno, il Super Ecobonus ha impattato su poco più dell’1% degli edifici residenziali, che scendono a circa lo 0,8% se si tiene conto dei soli edifici condominiali. Inoltre, tenendo conto dell’attuale classificazione, l’incremento di due classi energetiche, limite minimo imposto per l’accesso agli incentivi, equivale a circa il 40% del miglioramento della prestazione energetica. Questi dati evidenziano come un’iniziativa importante ed ambiziosa come il 110% sia ancora lontana da quel 3% annuo di “ristrutturazioni profonde” indicato dalla Renovation Wave Strategy come target per la decarbonizzazione al 2050.

La sfida è quanto mai complessa e di enorme portata, se confrontata con l’attuale patrimonio edilizio, tecnologicamente arretrato e pervaso da logiche gestionali quantomeno inefficaci. La storia ci insegna che mai, nella storia dell’edilizia, un cambio paradigmatico così importante, come quello della transizione energetica ed ecologica, è avvenuto senza un cambiamento radicale nelle tecniche costruttive, nei criteri progettuali e nei processi edilizi. L’ultima grande rivoluzione, quella dell’Architettura Moderna, è avvenuta nei primi anni del 1900 con un profondo rinnovamento dei modi di produzione dell’edilizia, che sono gli stessi che ancora oggi noi adottiamo. Non è quindi fuori luogo il richiamo della Renovation Wave Strategy ad un nuovo Bauhaus Europeo. La possibilità che il patrimonio possa rimanere cristallizzato nella sua attuale conformazione morfologico-costruttiva-gestionale e contemporaneamente possa fronteggiare sfide così importanti, semplicemente sottoposto ad interventi di integrazione di componenti di involucro o impiantistici appare davvero remota. La sostituzione completa della quota, non trascurabile, di edifici di scarsissimo valore economico, storico/testimoniale e prestazionale è sicuramente il primo punto da cui partire. Il Super Ecobonus, con lungimiranza, ha esteso gli incentivi agli interventi di demolizione e ricostruzione, che però, ad oggi, non sembra riguardare una quota significativa del patrimonio.

In quest’ottica, non è più pensabile una gestione affidata ad un’utenza parcellizzata, con limitate capacità finanziarie e tecniche che si traduce inevitabilmente in una committenza che ha come obiettivo, invece della massimizzazione delle prestazioni e della minimizzazione degli impatti, interventi di piccolo cabotaggio progettati e realizzati da soggetti professionali ed imprenditoriali di modestissime dimensioni. I modelli che si profilano all’orizzonte sono invece quelli basati sulla condivisione del patrimonio, sulla scia dei modelli di sharing dei mezzi di trasporto e dei mass-media, nella quale gli operatori economici si trasformino da produttori di beni a fornitori di servizi dell’abitare. Non è un caso se le comunità energetiche sono indicate da più parti come uno strumento fondamentale per attuare la transizione e non è utopistico pensare che potrebbero giocare un ruolo fondamentale anche nella gestione del patrimonio costruito, a patto che si evolvano in qualcosa di più di un semplice raggruppamento di prosumer, diventando comunità di efficienza energetica e andando a coincidere con l’utenza del patrimonio da gestire ed efficientare.