A prescindere da quelli che saranno gli esiti della guerra in Ucraina, Putin e la classe dirigente russa hanno dimostrato la loro incapacità di ottenere per le vie diplomatiche quell’obiettivo che oggi affidano alle armi: la neutralità – o “finlandizzazione” – di Kiev a garanzia di quella che rappresenta una vera e propria costante della politica estera della Russia – nelle sue varie forme statuali: zarista, sovietica e postsovietica – ovvero il “senso di accerchiamento”.
Nel post-Guerra fredda questo si è trasformato in una sorta di ossessione scaturita da una combinazione di numerosi fattori: le particolari forme della sconfitta sovietica, la costituzione/ricostituzione di quattordici Stati nazionali indipendenti oltre alla Russia, l’effimero tentativo di costituire una Comunità degli Stati Indipendenti, la perdita di prestigio internazionale a fronte degli sforzi che il Paese stava compiendo nella difficile transizione dal totalitarismo e, infine, la fragilità in cui versava mentre risultava travolto dai processi di privatizzazione dell’economia (a opera di Boris Eltsin e Yegor Gaidar) con l’accentramento di ingenti risorse in mano a un ridotto numero di individui (i cosiddetti “oligarchi”).
Il senso di accerchiamento russo – è opportuno ricordarlo – è stato alimentato anche da una speculare euforia da finis Russiae che – a fasi alterne – ha portato i governi occidentali a sottovalutare i problemi di sicurezza di Mosca e, soprattutto, le sue conseguenze nel momento in cui essa fosse uscito dalla condizione di “minorità” internazionale in cui era incappata negli anni Novanta. Il sostegno occidentale alle Rivoluzioni colorate e gli allargamenti a est della NATO in concomitanza con l’inceppamento – dovuto a errori compiuti da ambo le parti – dei meccanismi di contro-assicurazione definiti tra gli anni Novanta e Duemila (NATO-Russia Council, G8) hanno così provocato un avvitamento dei rapporti con la Russia.
Questa involuzione, potenzialmente perniciosa per la preservazione dell’ordine internazionale a guida americana, non potrà che essere esasperata dalla guerra. A meno che il conflitto non si allarghi ad attori esterni (USA, NATO) assumendo contorni potenzialmente apocalittici, infatti, è verosimile che Mosca ne uscirà ottenendo alcuni vantaggi territoriali indigeribili per gli Stati Uniti e i Paesi europei.
È ipotizzabile, quindi, che anche le sanzioni siano destinate a durare nel tempo e, di conseguenza, che i rapporti tra mondo occidentale e Russia nel medio termine siano destinati ad assottigliarsi ulteriormente (qualcuno ventila anche un embargo totale da parte americana). Storicamente – si ricordi – che le sanzioni non sono strumenti utili a vincere una guerra, ma sono tesi a produrre effetti di medio-lungo termine sul regime dello Stato-target. Nel caso specifico, lo scenario profilato dall’intervento di questi provvedimenti era stato con tutta probabilità già preso in considerazione dal Cremlino mentre si preparava a lanciare l’invasione dell’Ucraina, anche se probabilmente aveva confidato in una minore compattezza del fronte occidentale. E l’obiettivo che i Paesi occidentali realisticamente si prefiggono di conseguire attraverso le sanzioni, non è quello di arrestare le operazioni belliche, ma di causare una perdita di consenso a Putin e, più in generale, sferrare un colpo alla legittimità interna del suo regime.
Tra i costi inattesi della guerra in Ucraina, quindi, non figurano solo la perdita di credibilità dei principali esponenti del suo governo russo, che nei mesi passati hanno più volte negato l’intenzione di ricorrere allo strumento bellico, o quella della legittimità internazionale, alimentata da quelle immagini dell’invasione che hanno avocato la simpatia per la Russia anche tra molti di quegli uomini e partiti politici occidentali che fino a qualche settimana fa le strizzavano l’occhio. Ancor più grave per il futuro del Paese è la perdita di flessibilità strategica determinata dalla guerra. Negli ultimi venti anni, infatti, i progressi compiuti dalla Russia di Putin erano derivati anche dalla capacità di quest’ultimo di far sapientemente oscillare il Paese tra Occidente e Cina.
Oggi, invece, il “pendolo” russo è destinato a bloccarsi sul lato cinese per compensare almeno parzialmente la sospensione – non è prevedibile per quanto – di buona parte dei rapporti politici, economici e culturali con gli Stati Uniti e i Paesi europei. E i primi segnali di tale svolta già si stanno materializzando, dalla recente richiesta di sostegno militare a Pechino alla possibilità di effettuare pagamenti internazionali in yuan attraverso il sistema CIPS (alternativo a SWIFT), passando per il possibile ricollocamento di parte del gas russo sul più grande mercato asiatico.
La svolta segnalerebbe un momentaneo primato alla cosiddetta corrente “asiatista” (o “sinofila”) della politica estera russa, alternativa a quella “occidentalista”. Si tratta, tuttavia, di una scelta da cui sarà difficile tornare indietro e che appare dettata non tanto da una coerenza di fondo tra gli obiettivi politici delle due potenze eurasiatiche, quanto dalla logica del “nemico del mio nemico è mio amico”. Non si dimentichi, infatti, che il senso di accerchiamento russo ha preso forma anzitutto a causa delle invasioni subite da est – e non da ovest – tra il XIII e il XV secolo e che si tradussero nel cosiddetto “giogo mongolo”. Nel Novecento, anche in epoca di “internazionalismo socialista”, non furono rari i momenti di tensione tra i due Paesi, che raggiunsero il picco con l’assedio dell’ambasciata sovietica a Pechino del 1967. E che, oggigiorno, questi sono pronti a riaffiorare nel momento in cui progetti come la rotta terrestre della Belt and Road Initiative, che dovrebbe attraversare quell’Asia centrale che la Russia considera parte del suo “estero vicino” come l’Ucraina, diventassero realtà.