Come in decenni ben più oscuri di questo, parte dell’economia europea si è risvegliata in assetto di guerra. Mentre da Kharkiv a Mariupol’ e a Mykolaiv si susseguono le immagini dei bombardamenti a tappeto di quartieri residenziali, l’imponente siderurgia ucraina, di stazza ed expertise antiche ma di eredità sovietica, ha dovuto sostituire alla produzione di utensileria, condutture, scheletri per il calcestruzzo armato la fabbricazione di cavalli di Frisia, o addirittura raffreddare e fermare altoforni e colate continue e approntare dei rifugi antiaerei per i propri operai e le loro famiglie. Anche senza arrivare agli esempi drammatici di chi si trova catapultato nel mezzo delle operazioni militari, l’intero sistema economico europeo è stato sconquassato da uno shock con pochi precedenti in termini di magnitudo (possiamo pensare all’arrivo di COVID-19 nel Nord Italia), le cui scosse di assestamento saranno tutte da valutare.
Non è questa la sede deputata a disamine prettamente politiche, ma non possiamo non chiederci cosa abbia spinto il decision making del Cremlino a compiere una mossa, l’invasione dell’Ucraina, che ha provocato reazioni di tale durezza contro l’economia russa. È banale quanto difficilmente confutabile, ma probabilmente la possibilità di sanzioni così dure e trasversali non era considerata attendibile; né la resistenza dell’esercito ucraino era considerata, evidentemente, preoccupante, se al ventesimo giorno dallo scoppio delle ostilità le lunghe colonne di mezzi che dovevano prendere Kiev in 48 ore sono in (palese ed ammesso) stallo logistico e strategico e l’offensiva è diventata puramente balistica.
Si tratterebbe quindi delle conseguenze non volute di un clamoroso errore di valutazione; e a prescindere da come esso si sia potuto produrre (paranoia? Isolamento?), la faglia tettonica che esso ha causato fa già parlare di un “prima” e di un “dopo”. Veniamo subito al cuore del cambiamento: la merce russa, in special modo la materia prima russa, non è più commercialmente neutra. Il fossile russo (gas, petrolio e carbone) importato in Europa va abbandonato, non temporaneamente ma in modo perenne, e si stanno adottando (o annunciando) sbrigativi passi per iniziare ad archiviarlo (whatever it costs) già da quest’anno.
Fonte: Refinitiv Eikon
“Già da quest’anno” è però una formula che, sebbene debba in teoria andare a concretizzarsi nei prossimi nove mesi, rimane a tutt’oggi una professione di ottimismo e di determinazione – non meramente retorici, vista la gravità di quanto accade, ma nemmeno scontati.
Beffardamente, tanto per cominciare, i flussi giornalieri attraverso le principali rotte che portano il gas russo in Europa sono andati ad aumentare proprio dal 24 febbraio, tornando ai massimi relativi da parecchi mesi. Addirittura, la rotta che transita attraverso il teatro bellico ha avuto un balzo notevole dai minimi di gennaio e febbraio: producendo il noto paradosso per cui si continua a finanziare le casse di Mosca (e non poco, almeno per la parte indicizzata gas-to-gas), mentre si fa di tutto per congelarle in termini di accesso alle transazioni bancarie e riserve valutarie centrali. Nel mentre, il mercato è andato oscillando furiosamente: nel giro di una settimana il TTF Month Ahead è stato in grado di ripiegare dal massimo storico del settlement del 7 marzo (230 €/MWh, massimo intraday a 345 €/MWh) fino a circa 130 €/MWh. È chiaro che in assenza di cambi nei fondamentali (che anzi migliorano) è il flusso ininterrotto di notizie dal fronte ucraino a muovere i mercati: nella fattispecie, le migliori prospettive di dialogo per un cessate-il-fuoco emerse nell’ultimo weekend, anche di fronte all’arenarsi dell’offensiva russa e al peso insostenibile delle sanzioni.
Facciamo un salto indietro nel tempo. Un baltico, un polacco obietterebbero comunque che mai la materia prima russa è stata effettivamente neutra e che sempre il Cremlino ha usato i fossili come strumento di coercizione; ma era opinione corrente quella contraria, negli anni e fino al 23 febbraio 2022. Chi scrive ha avuto il piacere di seguire la vicenda di Nord Stream 2, e di scriverne, nel mare burrascoso di sanzioni che il gasdotto ha attraversato – indenne – dalla fine del 2018. Sì, nessun analista avrebbe negato la sottile scomodità di interpretare le mosse commerciali di Gazprom, camuffate dietro gli slogan muscolari di Putin o di Novak; ma nessuno avrebbe scommesso che le due parti avrebbero mai potuto buttare a mare la ratio commerciale di 99 miliardi di euro annui di import di idrocarburi (2021), 150 andando a comprendere acciaio, ferro, legno e fertilizzanti, per lasciarvi terra bruciata (tristemente, quella ucraina) e vaghe promesse di una lunga, costosissima e subalterna sostituzione dell’europeo con il cinese.
Non sono passati che poco più di due anni da quando Gazprom e l’ucraina Naftogaz giunsero in extremis ad una tanto rincorsa conferma dell’accordo di transito sul gasdotto Brotherhood-Sojuz, che porta ancor oggi 50 miliardi di metri cubi di gas l’anno (fonte Eurostat e dato relativo al periodo dicembre 2020-novembre 2021) nelle nostre case e alle nostre imprese. Non sono passati che cinque mesi e rotti dalla posa dell’ultimo metro del raddoppio di Nord Stream sul fondale del Baltico, capolavoro di equilibrismo che avrebbe fatto dell’asse San Pietroburgo-Berlino il fulcro centrale del sistema gas europeo coi suoi 100 miliardi di metri cubi annui, relegando alla marginalità le altre rotte (ma senza strappi). Insomma, l’interesse russo era leggibile, forse poco incline ai compromessi, ma commercialmente sensato.
Da questo punto di vista siamo al tramonto di un sistema di (accettata) interdipendenza e di centralità della valutazione puramente commerciale. Per aver un’idea del ritmo pazzo di questa “U-turn” è utile guardare innanzitutto alla Germania. Lo strano governo “semaforo” tra socialisti, verdi e liberali intraprende una revisione strategica letteralmente nottetempo che porta un paese tradizionalmente restio a qualsiasi coinvolgimento diretto in teatri di conflitto a fornire direttamente armi a Zelensky; un paese orgoglioso della sua relazione speciale con Mosca, centrata sull’energia fin dai tempi del cancelliere Brandt e della Ostpolitik, a fare un’abiura generale della “poca lungimiranza” delle scelte di Merkel, perfino nel suo stesso partito. Il paese del formalismo burocratico preme oggi per il fast-tracking dei tre terminal GNL di Stade, Brunsbüttel e Wilhelmshaven; il paese della mano libera alla libera competizione adotta la prudenza strategica italiana e va ad imporre dei target minimi obbligatori al riempimento degli stoccaggi gas a inizio inverno.
L’onda nuova da Berlino contagia – s’intende – Bruxelles, che di Berlino dal punto di vista regolamentare era spesso stata immagine e somiglianza. L’allergia agli aiuti di Stato, alle procedure semplificate e d’urgenza, agli scostamenti e agli sfondamenti di bilancio, già molto allentatasi con la svolta espansiva del Recovery Fund, è stata travolta dalla necessità di proteggere gli utenti finali da un caro-energia che da grave si è fatto impetuoso. Perfino un anatema come le “tariffe regolamentate” in luogo dei prezzi puri di mercato, un ripristino emergenziale delle condizioni pre-liberalizzazione, viene messo sul tavolo dai leader convenuti nei saloni di Versailles. Si parla persino di contromosse per limitare il “contagio dei prezzi del gas su quelli dell’energia” (che più che contagio è correlazione 1:1, dato il sistema del prezzo marginale con cui si formano le quotazioni di quest’ultima in ciascuna ora della giornata), riportando in auge un dibattito caro ad alcuni governi – primo fra tutti quello spagnolo – fin dall’inizio del caro-energia lo scorso autunno, ma in seguito sepolto dai veti incrociati del Consiglio dell’UE. Resta invece defilato (ma ne parla con toni di sdegno il ministro Cingolani) il tema della “speculazione”, o meglio delle posizioni di banche di investimento e hedge funds sempre più specializzati, il cui open interest è andato sempre crescendo e che in alcuni casi sono riusciti a mettere le mani su attivi stupefacenti, a detrimento degli operatori commerciali che invece non hanno più la liquidità per sostenere i requisiti di margine (aumentati anche di un fattore x4 o x5) per restare attivi sugli hub di negoziazione.
La Commissione UE ha approntato dei piani per ridurre “dei due terzi” (!) la dipendenza dal gas russo entro fine anno ed abbandonare qualsiasi rifornimento “entro il 2027” (ma nel solco del Fitfor55, che già di per sé dovrebbe vedere una diminuzione del -30% dei consumi continentali). Cozza amaramente con le reali disponibilità dell’offerta il proposito di istituire delle soglie-obiettivo obbligatorie per il refill estivo degli stoccaggi, addirittura del 90% entro ottobre e già da quest’anno (siamo attorno al 26% ad oggi). Con quale gas? Le principali alternative al russo, Norvegia e Algeria, sarebbero insieme in grado di incrementare le forniture annue di una ventina miliardi di metri cubi l’anno (tra i 15 e i 30 Oslo, ma spesso il calendario di manutenzioni dei giacimenti norvegesi impone revisioni al ribasso; meno di 5 Algeri), cui si aggiungono 3 o 4 miliardi dal giacimento olandese di Groningen, il cui onorato pensionamento è stato posticipato per l’occasione. Si faccia pure +40 miliardi per le vie alternative, in eccesso di zelo: siamo ben lontani dal poter ridurre dei due terzi i 180 miliardi di metri cubi importati dalla Russia negli ultimi dodici mesi con dati EUROSTAT (dicembre 2020-novembre 2021).
Fonte: Refinitiv Eikon
La mossa più coraggiosa e meno indefinita nel piano di decoupling energetico dalla Russia sarebbe quella di incrementare l’import di GNL continentale di oltre +50 bcm annui già dal 2022 (cioè dai ca. 125 degli ultimi dodici mesi a 175). Dato però che i nuovi terminal di liquefazione operativi a partire da quest’anno saranno limitati (giusto un paio negli USA), ottenere quei volumi non potrà che passare attraverso una distruzione della domanda in Asia (anche per ragioni meteo), ovvero a un prezzo del TTF europeo perennemente superiore al concorrente JKM asiatico. Due strade costose e che comunque presuppongono una confluenza di circostanze favorevoli – il fatto che per ora l’inverno sia stato mite sia a Parigi che a Tokyo non garantisce nulla sul prosieguo della stagione e su eventuali periodi di siccità (come quello che stiamo vivendo in Italia) o drastiche heatwaves estive.
Vanno aggiunti poi all’equazione altri due fattori. Da un lato c’è la “spada di Damocle” del nucleare francese, che se mai è stato il fattore di stabilità e risparmio in bolletta talvolta dipinto dai media ha definitivamente cessato di esserlo quest’anno: in due momenti distinti EDF ha ridotto fortemente le proprie previsioni sull’output 2022 da 330-360 TWh a 295-315 TWh di energia, con strascichi anche nel 2023. Il motivo sarebbero le consuete manutenzioni non programmate per ragioni di sicurezza e di corrosione del vetusto parco centrali, ma al di là delle “malelingue” (la nazionalizzazione completa del gruppo è voce corrente; di certo c’è il fastidio verso l’obbligo di calmieramento dei prezzi imposto dal governo di Macron) le conseguenze sul bilanciamento delle reti elettriche europee saranno pesanti. Il consumo di gas aumenterà di sicuro, proprio mentre la Germania – che senza timori di gettare benzina sul fuoco sta procedendo alla chiusura dei suoi propri reattori in base a un piano redatto nel 2011, a valle di Fukushima – diventerà per la prima volta importatore netto di energia elettrica.
Dall’altro lato c’è il carbone, che proprio come il gas archivia la settimana più costosa nella sua storia su tutte le scadenze (front year ARA API2 oltre i 250 $/t, front-month oltre i 460), a causa del massiccio e repentino interesse nella sostituzione del minerale russo nei panieri di importazione e dei conseguenti timori per la scarsità di carbone non russo. Nell’ultima settimana, in corrispondenza di un massiccio calo della produzione eolica tedesca, per non aumentare ulteriormente la domanda di gas russo Berlino ha incrementato la generazione elettrica da antracite (+84% sull’anno!). È solo un assaggio, ma ci dà il polso di come il combinato disposto delle misure per contrastare il cambiamento climatico sia tornato e stia tornando con rapidità abbastanza drammatica in secondo piano, pochi mesi dopo la “decisiva” COP26 e nel mezzo dell’iter legislativo dell’ambizioso Fitfor55. Anzi, l’IEA ci dice che nel 2021 le emissioni di gas serra prodotte dalla generazione fossile di elettricità hanno raggiunto un nuovo massimo assoluto: visti i presupposti di questo 2022 di guerra e di necessità, se il dato non verrà ulteriormente peggiorato sarà solo per gli effetti della chiusura delle fabbriche per sopravvenuta impossibilità a pagare le bollette.
Concludiamo: per la decisione imprevista, brutale e strategicamente inspiegabile di invadere l’Ucraina, le cancellerie da Berlino a Bruxelles si sono fatte carico dell’annuncio di una “rivoluzione copernicana” per i mercati energetici. Sebbene i nuovi contorni regolamentari siano ancora poco chiari, il minimo comun denominatore sarà l’abbandono della “molecola russa”, in quanto “molecola di Putin” e – oltreché per considerazioni morali – oramai intenibile in portafoglio per ragioni di risk management. Per sostituirla, la molecola (di gas) alternativa è insufficiente e/o appesa alle circostanze favorevoli (il meteo asiatico); l’atomo sulla cui fissione troppo si magnifica farà mancare il suo supporto; ci resta giusto la “scheggia” di carbone, scarsa anch’essa, non a buon mercato né priva di conseguenze climatiche. E non abbiamo menzionato il petrolio, con la più grave penuria di diesel e medi distillati dal 2007 e l’IEA disposta a rilasciare le scorte strategiche dopo il bando del greggio russo deciso da Londra e Washington.
Per quanto si vorrebbe terminare con uno spunto di ottimismo, il quadro dei fondamentali descritti e l’estrema incertezza che tutt’ora condiziona gli eventi lasciano spazio ad un amaro pragmatismo: ci attendono tempi impegnativi.