Il dibattito che si continua a sviluppare sull’industria della raffinazione italiana è stantio e basato su luoghi comuni vecchi di decenni. Si sente ripetere della bassa redditività che allontana ogni possibilità di nuovi investimenti e che porta inevitabilmente alla chiusura degli impianti. Non sono state mai individuate le cause profonde della crisi del settore e soprattutto non si è mai definita una prospettiva per il futuro. Nell’era della comunicazione, le chiusure di impianti vengono chiamate spesso riconversioni (in depositi, in bioraffinerie, in supporti logistici), ma comunque prevedono la fermata permanente degli impianti industriali ed il loro smantellamento.
Cosa si è detto o scritto per rendere le raffinerie esistenti più competitive sul piano tecnologico ed ambientale? Cosa si è detto sull’integrazione tra tecnologie tradizionali e quelle delle bio-tecnologie e del gas-to-liquid? Quali imprenditori hanno pensato di percorrere questi percorsi? Quale è stato il supporto delle autorità competenti?
Si continua a ripetere il logoro tema della competitività delle raffinerie del Golfo Persico e del Far East, dell’eccesso di capacità produttiva in Europa e delle normative penalizzanti che gravano sul nostro sistema industriale, senza mai misurarsi con l’evoluzione del settore petrolifero negli ultimi due decenni.
Gli ultimi documenti di Strategia Energetica Nazionale, ultima quella di Calenda del 2017, sono stati gli esempi clamorosi di questo modo di affrontare il tema. A parte qualche presa di posizione coraggiosa di Claudio Spinaci, presidente di UNEM (ex Unione Petrolifera), poco si è visto in questo dibattito. Proviamo a mettere un po' di ordine in questi ragionamenti.
La domanda petrolifera mondiale viaggia ormai intorno ai 100 milioni di barili/giorno (bbl/g). Il calo a seguito del crollo dei consumi, provocato dalla pandemia mondiale, è ormai assorbito e sembra essere ripartito un trend di crescita che pare inarrestabile. La crescita rapidissima del prezzo del petrolio ne è la prova più evidente. L’incidente del crollo del prezzo del WTI a -37 doll/bbl del 20 aprile 2020 è un ricordo archiviato per sempre come un impazzimento dell’algoritmo di fissazione del prezzo nella borsa di New York, andato in tilt a seguito delle massicce speculazioni sui CDF (Contracts for Differences).
In questo quadro di forte ripresa della domanda e dei prezzi, il dato più evidente è l’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi per il trasporto (benzine, Jet fuel, gasolio). I consumatori hanno avuto modo di toccare con mano sia i prezzi alla stazione di servizio, sia l’aumento del costo dei biglietti aerei.
Dopo tanti anni in cui il prezzo del Brent è stato spinto in alto (o in basso) dalle attività dei mercati finanziari, dove gli investitori hanno movimentato trilioni di dollari al giorno, stavolta, la spinta al rialzo dei prezzi appare sostenuta dalla ferma crescita della domanda fisica di prodotti petroliferi. Sono la domanda ed i prezzi di benzina, gasolio e jet fuel a trascinare in alto il prezzo del petrolio greggio.
I mercati a futuri del Brent sono stati colti quasi di sorpresa di fronte alla dimensione di questa spinta al rialzo. Le aspettative di un andamento alternante con salite seguite da discese prolungate sono andate deluse. Il mercato vive alla giornata quasi incredulo di questi continui e forti rialzi.
La risposta a tutto questo va cercata nella nuova situazione della raffinazione mondiale. Rispetto ai decenni passati, la capacità di raffinazione mondiale risulta oggi assolutamente inadeguata rispetto alla dimensione, qualità e struttura della domanda petrolifera mondiale.
Cominciamo col dire che oggi la capacità operativa effettivamente disponibile non supera 85 milioni di b/g; quindi, inferiore alla domanda complessiva di circa 100 milioni di b/g. Non c’è più, a livello mondiale, una spare capacity di raffinazione. Anzi, siamo di fronte alla situazione opposta. Già oggi in giro per il mondo esistono aree di consumo che non riescono ad essere coperte. In alcuni paesi, in Africa e Medio Oriente, per fare il pieno alla propria auto occorre fare file anche di uno o più giorni per la mancanza di disponibilità di benzina o gasolio. In altri paesi, alcuni addirittura paesi produttori di petrolio e membri dell’OPEC, il consumo di benzina è razionato. Molti voli di rientro (sulla carta voli diretti) da paesi africani (anch’essi paesi produttori di petrolio) sono costretti a prevedere degli scali intermedi per potersi rifornire di jet fuel, non disponibile a sufficienza negli aeroporti di alcune capitali o città importanti.
La chiusura di molti (troppi) impianti di raffinazione negli ultimi decenni ha decimato la capacità di raffinazione europea ed ha ridotto quella italiana al di sotto del minimo indispensabile. Il risultato, soprattutto in Italia, è la crescente importazione di prodotti petroliferi (di scadente qualità) dai cosiddetti mercati internazionali.
Se fosse vera la tesi della concorrenza nel settore della raffinazione dei paesi del Medio ed Estremo Oriente, ci troveremmo di fronte ad un flusso di importazione dalle raffinerie di questi paesi. Ma non è così.
La maggior parte dei prodotti petroliferi provenienti dalle raffinerie dei paesi produttori del Golfo o dell’India sono decisamente inviati verso i mercati dell’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Korea, ecc.) o, meno frequentemente, del Nord America, che pagano prezzi più alti di quelli europei. Dirottare questi prodotti petroliferi verso i mercati europei porterebbe a costi ancora più elevati di quello che finora abbiamo pagato.
In effetti, l’esperienza quotidiana, in particolare del mercato italiano, ci dice che il flusso delle importazioni di prodotti petroliferi proviene da aree non nettamente definite e spesso non è caratterizzato da un pieno rispetto della legalità.
In passato abbiamo visto che il greggio prodotto nelle province irachene occupate da Al Qaeda ed esportato attraverso la Turchia raggiungeva alcune raffinerie della Libia (in guerra) e di alcuni paesi dell’ex URSS, dove veniva raffinato e trasformato in prodotti petroliferi. Questi prodotti hanno spesso raggiunto il mercato italiano (o altri mercati europei) mescolati con altri prodotti raffinati in modo legale e trasparente nelle stesse raffinerie.
Alcuni dati pubblicati dagli operatori del settore e confermati dalle forze di polizia hanno parlato di un fenomeno ampio e diffuso.
L’assenza di una strategia nazionale nel settore della raffinazione sta favorendo la sua decadenza e sta portando all’indebolimento della sicurezza degli approvvigionamenti per il paese.
L’esistenza di una forte industria della raffinazione ci ha consentito in passato di avere rapporti strategici con i principali paesi produttori di petrolio. Da un lato, compravamo il greggio da raffinare in casa nostra, dall’altro potevamo fornire ai produttori servizi di ingegneria ed impianti per ripagare gli acquisti di petrolio e gas che ci servivano. Nel complesso la fattura energetica risultava molto bilanciata.
La distruzione del settore ci porterà a comprare i prodotti che ci serviranno “alle bancarelle” di mercatini di dubbia affidabilità e certamente non in grado di garantire continuità degli approvvigionamenti e la qualità ambientale dei prodotti.
Il caso clamoroso è l’approvvigionamento del jet fuel. Importiamo ormai almeno il 50% del nostro fabbisogno. Un’analisi di questi acquisti mostra che si tratta di un’attività assolutamente sporadica in mano ad operatori spesso improvvisati.
Purtroppo, si tratta di temi su cui non è assolutamente possibile attrarre l’attenzione della classe dirigente del paese e dell’opinione pubblica. Dovremo forse aspettare che si verifichino una serie di inconvenienti presso i vari aeroporti, quando i voli saranno cancellati per mancanza di jet fuel, come succede già oggi nei paesi africani.
Il clima che è stato creato intorno al tema dell’energia rende impossibile la presa di consapevolezza della gravità della situazione. Si pensa che la transizione energetica è già dietro l’angolo e che quindi non occorre preoccuparsi di garantire continuità all’esistente magari migliorandone lo stato, l’efficienza e l’impatto sull’ambiente.
Ovviamente, una discussione su chi potrebbe investire in questo settore così importante nelle condizioni di condizionamento politico-culturale attuale appare totalmente irrealistico e fuori luogo. Come diceva il comico: “Io speriamo che me la cavo”.