L’assemblea 2021 di Assopetroli-Assoenergia si accende sotto due coni di luce convergenti: il brutale rincaro dei prezzi dell’energia e l’incertezza delle policy sulla decarbonizzazione, a pochi giorni da Glasgow. Due facce della stessa medaglia.
L’impeto del caro energia dovrebbe richiamare l’attenzione di analisti e decisori sullo squilibrio strutturale tra domanda e offerta che è alla base degli aumenti, per cercare di porvi rimedio. Invece, per ora prevale l’attenzione sulle poche, ma costosissime, misure “tampone” messe in campo dai Governi per alleviare la tensione. Da più parti ci si concentra sull’analisi congiunturale che, tuttavia, appare miope e deliberatamente reticente nel sottostimare il nesso duraturo tra prezzi alti, fame globale di energia, “scarsità desiderata” di olio, gas e carbone dovuta al crollo degli investimenti, dipendenza dalle fonti fossili.
Sotto il peso della contraddizione, riteniamo che la narrazione fiabesca e felice della transizione green tramonterà presto e l’agenda politica europea si concentrerà sempre più sulla ricerca del difficile bilanciamento tra sostenibilità climatica e sicurezza energetica, intesa quest’ultima come affidabilità ed economicità degli approvvigionamenti.
Che tale complessità abbia fatto irruzione sulla scena proprio ora è, nonostante tutto, una buona notizia. Una sterzata benefica che ci inchioda alla realtà. L’urgenza della lotta al cambiamento climatico, che non è in discussione, non può riuscire senza realismo e pragmatismo. Occorre cercare nuovi trade-off, sapendo che saranno comunque difficili, costosi e mai privi di rischi. Senza uno sguardo complesso, depurato dalla demagogia, si rischia di allontanare quelle soluzioni di cui si ha invece drammaticamente bisogno.
Specie in Occidente, la gigantesca distorsione comunicativa sull’energia fa spesso dimenticare i dati di fondo essenziali. Il mondo è affamato di energia: ogni giorno più o meno 100 milioni di barili di petrolio, 15 milioni di tonnellate di carbone, 11 miliardi di metri cubi di gas. Se l’80% circa della domanda è ancora soddisfatto da fonti fossili, ciò non è dovuto alle trame ordite dalle Big Oil o dai Petrolstati, ma alla cogenza di un paradigma tecnologico non ancora, non del tutto, superato.
Le campagne di demonizzazione dell’industria Oil&Gas, quindi, non favoriscono in alcun modo il cambiamento. Non ha senso colpevolizzare un’industria che resta fondamentale e che va sostenuta nella riconversione, affinché giochi un ruolo chiave anche nella mitigazione del cambiamento climatico. Come? Scalando tutte le tecnologie già in fase industriale (biofuels, sinfuels, carbon capture and storage e idrogeno), e continuando a sviluppare le tecnologie del futuro, ad esempio la fusione nucleare a confinamento magnetico.
Altro dato fondamentale è l’irrilevanza sostanziale dell’Europa nei destini climatici del pianeta, che si giocano altrove, Cina e India in primis. È sempre utile ricordare che una società ampiamente decarbonizzata come quella europea (8,7% delle emissioni totali, associate a livelli relativamente bassi anche di emissione pro capite) offre margini di ulteriore riduzione dei GHG che sono in assoluto modesti e marginalmente costosissimi.
Politiche climatiche aggressive e troppo accelerate in Europa rischiano di costare moltissimo, di destabilizzare l’assetto politico, economico e sociale, esponendoci a forti rischi di deindustrializzazione e all’aumento della povertà energetica. Tutto ciò senza produrre reali benefici a livello globale. In queste coordinate dovrebbe incardinarsi l’iniziativa politica continentale su Clima, Energia, Ambiente. Avendo ben chiara la visione che gli effetti del Green Deal europeo si proietteranno ben oltre questi ambiti, e comporranno il più vasto, impegnativo, gravido di conseguenze, programma di politica estera dell’Unione e degli Stati membri. Ridisegnare le nostre alleanze, gestire le nuove dipendenze, inciderà profondamente sul grado di sicurezza non solo energetica, di autonomia e perfino di sovranità politica.
Impatto del caro energia sulla distribuzione: cosa fare e cosa evitare
Il caro energia ha un impatto molto negativo non solo - come è ovvio - sui consumatori, che sono stati ristorati solo in minima parte del maggior costo attraverso un costosissimo intervento fiscale, ma anche sul settore energetico, in particolare sul nostro segmento distributivo. Se consideriamo la componente fiscale che grava su benzina e gasolio, l’Italia si colloca rispettivamente al primo e al secondo posto in Europa; al contrario, il costo industriale, che comprende anche i margini di distribuzione, è strutturalmente più basso in rapporto alla media UE: è quindi evidente come nel segmento distributivo italiano non si stia verificando alcun fenomeno di tipo speculativo.
Analizzando la composizione della tassazione si evidenzia come l’IVA, applicata sulla sommatoria del costo industriale più l’accisa, stia determinando un consistente extragettito erariale. Sono entrate straordinarie che vanno utilizzate per calmierare i prezzi. È necessario farlo subito per non fiaccare la ripresa e non rafforzare la spinta inflazionistica del caro energia. L’abbattimento temporaneo dell’IVA, già previsto per il gas naturale usato nella combustione, va esteso subito al gas per l’autotrazione ed interventi analoghi vanno disegnati anche per benzina e gasolio per allentare la pressione sui consumatori.
Il caro benzina pone in una luce nuova e problematica anche l’annosa questione del taglio dei cosiddetti SAD (Sussidi Ambientalmente Dannosi). L’elevata incidenza della componente fiscale sul prezzo dei carburanti - ad oggi pari a circa 1 euro al litro - ha effetti particolarmente regressivi sulle fasce deboli della popolazione: una zavorra che acuisce fenomeni di povertà energetica. Pensare ad un aumento, specie in questa fase storica, sarebbe del tutto irrazionale. Semmai l’equiparazione delle accise tra benzina e gasolio con finalità ambientali va fatta in direzione opposta: abbassando quella della benzina, livellandola al gasolio. O, in via del tutto subordinata, attestarle entrambe ad un livello intermedio, ma a condizione che ciò non aumenti di un solo euro in più il gettito erariale.
Nel recente confronto sulla mozione del Parlamento al Governo sul “caro bollette” la tassazione dell’energia è tornata d’attualità. Una prima versione della mozione prospettava addirittura l’ennesimo intervento punitivo verso l’Oil&Gas, spingendosi fino al nostro segmento che è meramente distributivo. Si è vagheggiato di tassazione straordinaria (una riedizione aggiornata della Robin Hood Tax) che denota, da un lato, il riflesso pavloviano ostile di certa politica, e dall’altro la mancata conoscenza delle reali dinamiche del settore.
Vale la pena ricordare, infatti, che il comparto della distribuzione carburanti include segmenti molto diversi che risentono in modo differente dell’aumento dei prezzi. In questo momento, il settore distributivo extrarete – dedicato alle vendite all’ingrosso e quindi alla fornitura di carburanti e prodotti energetici ai consumatori professionali (ad esempio al mondo della logistica, all’agricoltura e così via) – è tra quelli maggiormente penalizzati, in quanto non dispone di capacità di stoccaggio del prodotto e non è in grado di investire sull’andamento delle commodity in un’ottica di future e di lungo termine. D’altro canto, però, le imprese di questo comparto - che non incassano prima di 90/120 giorni - si affiancano a tutti gli effetti al settore creditizio, fornendo ossigeno finanziario a una pletora di settori produttivi, facendosi carico di rischi elevatissimi e di costi incomprimibili: in cifre, hanno un’esposizione media di 3,5 miliardi di euro al mese, sintomatica del ruolo imprescindibile che rivestono nel sistema.
La scarsità di investimenti nell’upstream ha, come visto, evidenti ed immediate ricadute sui prezzi finali. Da qui muove la necessità di avere un sistema normativo e fiscale più affidabile e certo, che non scoraggi gli investitori e le imprese nel proprio lavoro, come invece sta accadendo; la transizione richiede una riconversione industriale che si può realizzare solo a fronte di indicazioni affidabili sullo scenario atteso. Servono, poi, indicazioni di policy chiare che escludano nuovi aumenti delle accise e che impongano maggiore cautela nella revisione dei cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi”: cosiddetti, perché al livello di tassazione italiana sia l’inquinamento locale che quello globale di emissioni climalteranti sono ampiamente internalizzati, rendendo il termine “sussidio” addirittura paradossale. Infine, occorre avere bene a mente la dimensione sociale della transizione: la tassazione e i suoi effetti regressivi hanno impatti sociali significativi. Se non c’è consenso da parte della popolazione, questo percorso si incaglierà, compromettendo il conseguimento di obiettivi che invece dobbiamo necessariamente traguardare.
Neutralità tecnologica: il giusto approccio oltre il pregiudizio
L’esistenza di un preconcetto negativo nei confronti della distribuzione carburanti è chiaramente ravvisabile anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano connotato da un deficit macroscopico: il nostro comparto, così come quello dell’automotive, è stato completamente ignorato.
Eppure, il sistema distributivo non si contrappone al cambiamento. Al contrario, è una garanzia per la sicurezza energetica del Paese e un attore essenziale della transizione. Sarebbe, quindi, fondamentale che venisse concretamente messo nella condizione di potervi partecipare, innovando sia i prodotti sia il modello sul quale poggia. A tal fine, è necessario agire su più fronti parallelamente: razionalizzazione e rinnovo della rete, evitando che si trasformi in breve tempo in uno “stranded asset”; ridefinizione delle relazioni industriali che regolano il settore, attraverso nuove e più moderne forme contrattuali e contrastando il dumping sul lavoro; contrasto alle mafie e all’illegalità, consolidando la vigilanza e i controlli che abbiamo reso possibili con un dispiegamento di norme – stratificatesi nell’ultimo quinquennio – che non ha precedenti nel diritto tributario.
Tuttavia, per riuscire a implementare questo disegno, occorre da un lato il sostegno economico - il settore, da solo, non è in grado di sopportare la chiusura dei punti vendita – e dall’altro un approccio che punti fermamente sulla neutralità tecnologica. La proposta inclusa nel pacchetto Fit for 55 di bandire il motore endotermico entro il 2030 i veicoli a benzina e gasolio ed entro il 2035 perfino l’ibrido, è invece la chiara dimostrazione che la bussola della neutralità tecnologica è stata abbandonata. Un simile phase out poggia, infatti, su un presupposto tecnico fallace: il calcolo delle emissioni allo scarico. Misurare le emissioni “thank to wheel” anziché adottare un approccio di Life Cycle Assessment (che per l’elettrico dovrebbe essere addirittura riferita al “mining to recycling”), porta ad una valutazione distorta dell’impatto ambientale dei propulsori termici rispetto a quelli elettrici. Lo stesso discorso vale nel confronto tra i diversi carburanti e tra i diversi vettori energetici, i quali devono essere valutati anch’essi sull’intero ciclo di vita per non incorrere, di nuovo, in un’evidente distorsione. Abbandonare la neutralità tecnologica sarebbe un’incoerenza imperdonabile, soprattutto ora che tutti, a partire dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), ammettono che la decarbonizzazione al 2050 sarà raggiunta grazie a tecnologie ancora in parte sconosciute o da scalare dal livello di prototipo in cui trovano ora a quello industriale. È pertanto necessario avere chiaro l’obiettivo del Net Zero 2050, ma lasciare alla creatività dell’innovazione tecnologica e del mercato il compito di strutturare le soluzioni più efficaci.
Da ultimo, ma non meno importante, se le ricette della transizione continueranno a essere pensate a misura di economie occidentali avanzate, e non verranno calibrate sulla condizione reale degli altri 4,5 miliardi di abitanti del pianeta - tra cui figurano gli attuali principali emettitori di GHG e le aree a maggior sviluppo demografico ed economico da qui al 2050 - questo impegno rischia di restare sterile e di tradursi in un vacuo ambientalismo “lustra-coscienze”. Saremo i “best in class”, ma questo sforzo avrà realmente la capacità di condurre il mondo sulla via della decarbonizzazione? Ad oggi l’industria del cemento e quella dell’acciaio cinesi generano, da sole, più del totale delle emissioni europee. È un esempio emblematico tra i tanti possibili. Che, tuttavia, rappresenta plasticamente le difficoltà e gli interrogativi della transizione energetica, come sfida umana senza precedenti.