Sulla scia del crescente impegno nel settore idrogeno determinato dalle strategie Europee e nazionali, è sempre più diffuso l’interesse per le applicazioni degli impianti Power-to-Hydrogen (P2H), nei quali l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili viene impiegata per la produzione di idrogeno tramite elettrolisi. Gli elementi primari della tecnologia (v. Figura 1) sono l’impianto di generazione elettrica da fonte rinnovabile (es. eolico, solare, da biomasse, qui non rappresentato) e il sistema di elettrolisi per la produzione di idrogeno a partire da elettricità e acqua, a cui si aggiungono, a seconda delle applicazioni, eventuali unità di compressione e di accumulo.

Fig. 1 - Schema concettuale di un sistema Power-to-Hydrogen.

Fonte: Nostre Elaborazioni

L’energia elettrica può provenire da un collegamento dedicato con un impianto a rinnovabili o più in generale dalla rete elettrica, con scambio virtuale con fonti rinnovabili e con l’eventuale svolgimento di servizi ancillari di supporto alla regolazione della rete, grazie alla possibilità di operare come carico controllabile.

L’idrogeno rinnovabile, così prodotto, rappresenta un vettore energetico privo di carbonio ed altamente flessibile, che può essere accumulato in varie forme e destinato – sfruttando il disaccoppiamento temporale tra produzione e utilizzo – ad applicazioni potenzialmente molto variegate quali il settore dei trasporti o dell’industria, della power generation (con generatori elettrici o cogeneratori convenzionali o a fuel cell) o degli usi residenziali termici ed elettrici; sia in forma pura sia tramite miscelazione con il gas naturale, oppure previa trasformazione in altri “e-fuels” (ad es. tramite metanazione o conversione in combustibili liquidi, con riutilizzo di CO2 proveniente da altre fonti, secondo schemi anche denominati “power-to-X”). La tecnologia P2H consente infatti di accoppiare in modo flessibile ambiti di produzione ed impiego dell’energia tra loro molti diversi (“sector coupling”), riversando il potenziale di decarbonizzazione dell’energia elettrica rinnovabile in vari settori altrimenti non facilmente raggiungibili.

Elemento centrale di un impianto Power-to-Hydrogen è l’elettrolizzatore, nel quale si realizza la reazione di scissione elettrolitica delle molecole di acqua (H2O) nei suoi costituenti, idrogeno (H2) e ossigeno (O2), ottenuta fornendo elettricità sotto forma di corrente continua (DC). Questo processo, noto fin dall’Ottocento, ha visto un progressivo sviluppo tecnologico che negli ultimi decenni è giunto ad un ampio stadio di commercializzazione.

Il processo di elettrolisi avviene in una cella elettrochimica, costituita da tre elementi: due elettrodi (catodo e anodo) e un elettrolita (liquido o solido, a seconda dalla tecnologia) che consente il trasferimento di ioni. Tale struttura è mostrata in Figura 2 per le quattro tecnologie di elettrolisi più comuni, brevemente discusse nel seguito. Le celle singole sono assemblate in stack congiungendole in serie, con piatti di separazione tra gli elettrodi positivo-negativo adiacenti anche noti come piatti bipolari, in materiale elettricamente conduttivo.

Fig. 2 – Struttura della cella per le quattro principali tecnologie di elettrolisi

Fonte: S.Campanari, P. Colbertaldo, G. Guandalini “Power to Hydrogen”, in: Small Scale Power Generation Handbook, Elsevier, in press.

I due principali parametri che caratterizzando il funzionamento di una cella elettrolitica sono la corrente (ci si riferisce in particolare alla densità di corrente [A/cm2] per unità di superficie attiva della singola cella) e la tensione, misurate tra i due elettrodi. In condizioni standard di pressione e temperatura, la tensione ideale o reversibile richiesta per il processo di elettrolisi dell’acqua è pari 1.23 V (la tensione reale è poi maggiore, ed aumenta al crescere della densità di corrente, a causa di perdite interne al processo relative a fenomeni di attivazione, ohmici e di concentrazione).

Dal punto di vista termodinamico, il processo di elettrolisi è energeticamente sostenuto da due contributi, elettrico e termico.  Il rapporto tra la quantità di elettricità e calore scambiati nella reazione, come pure la tensione minima richiesta, diminuiscono al crescere della temperatura; pertanto l’elettrolisi ad alta temperatura richiede un input elettrico inferiore, a parità di idrogeno prodotto, bilanciato da un maggiore input termico che può essere recuperato dalle perdite interne della cella e/o con l’impiego di fonti di calore esterne.

Il rendimento elettrico complessivo, definito come il rapporto tra il contenuto energetico dell’idrogeno prodotto (portata massica  [kg/s] moltiplicata per il potere calorifico [kJ/kg], inferiore  o superiore ) e la potenza elettrica richiesta  [kW], oscilla a seconda dei tipi di elettrolizzatori tra il 60-70% e l’80-90% e oltre dei sistemi ad alta temperatura.

Il rendimento elettrico diminuisce moderatamente al crescere della pressione. A seconda dei requisiti nelle fasi successive di accumulo, trasporto e uso dell’idrogeno, la pressurizzazione del sistema di elettrolisi risulta in ogni caso generalmente vantaggiosa perlomeno fino a pressioni dell’ordine della decina di bar (quasi tutte le tecnologie sono proposte per funzionamento fino ad almeno 20-30 bar), rispetto all’alternativa di utilizzare un sistema di compressione dedicato.

Le tecnologie di elettrolisi sono tipicamente classificate in due gruppi, a bassa (<100°C) ed alta temperatura, con una nomenclatura riferita al tipo di elettrolita impiegato, secondo i tipi descritti brevemente nei paragrafi che seguono.

Elettrolisi a bassa temperatura: celle alcaline

Gli elettrolizzatori alcalini (Alkaline ELectrolyser, AEL) sono la tecnologia più sviluppata, in particolare per applicazioni stazionarie e/o continue, mentre le applicazioni che sfruttano produzione elettrica intermittente e richiedono funzionamento flessibile sono meno diffuse.

L’elettrolita è liquido, tipicamente una soluzione acquosa di KOH o NaOH, che circola tra due elettrodi in materiale metallico (generalmente leghe di Ni), trasferendo ioni OH- tra catodo e anodo, a temperature di 60-80°C. Un diaframma, permeabile all’elettrolita, impedisce il miscelamento di idrogeno e ossigeno che restano separati rispettivamente al lato catodico e anodico. I flussi di gas ed elettrolita uscenti da catodo e anodo vengono inviati a due separatori liquido-vapore, da cui l’elettrolita residuo viene ricircolato mentre i gas possono essere ulteriormente purificati ed inviata a impieghi esterni.

L’elettrolisi alcalina conta numerose installazioni in ambito industriale, con potenze da medio-piccole fino all’ordine delle decine di MW, spaziando dall’industria della lavorazione dei metalli a casi di produzione di idrogeno su grande scala in ambito chimico o con uso di energia idroelettrica su impianti ad acqua fluente.

Tra i principali costruttori si trovano ad esempio NEL Hydrogen (Norvegia) e Thyssenkrupp (Germania) che opera in collaborazione con De Nora (Italia), Cummins-Hydrogenics (USA/Canada), McPhy (Francia), ErreDue (Italia).

Elettrolisi a bassa temperatura: cella a membrana a scambio protonico

Gli elettrolizzatori a membrana a scambio protonico (Proton Exchange Membrane ELectrolyser, PEMEL) sono anch’essi disponibili commercialmente, benché a uno stadio di industrializzazione e sperimentazione su scala meno ampia degli elettrolizzatori alcalini.

Si basano su un elettrolita costituito da una membrana polimerica che in presenza d’acqua consente il trasferimento di protoni (ioni H+), garantendo una presenza quasi nulla di ossigeno nel flusso di idrogeno prodotto, alloggiato tra elettrodi metallici. Il funzionamento è a temperature di 50-70°C e la struttura che ne risulta consente di sviluppare stack estremamente compatti grazie al ridotto spessore e al funzionamento ad alta densità di corrente e media-alta pressione, con vantaggi di rapida risposta ai transitori di potenza elettrica in ingresso. Una criticità di questa tecnologia è la necessità di materiali preziosi come catalizzatori (Pt, Ir), motivo per cui gran parte della ricerca in corso è indirizzata alla riduzione ed ottimizzazione delle quantità di catalizzatore richieste oltre che alla loro piena riciclabilità.

La tecnologia, sviluppata fin dagli anni ’60 per le missioni Gemini della NASA, ha accelerato la sua evoluzione nell’ultima decade, anche grazie al progresso delle corrispondenti fuel cell PEM nel settore trasporti, che utilizzano componenti simili. Tra i principali costruttori troviamo ad esempio ITM Power (UK), NEL Hydrogen (USA-Norvegia), Siemens (Germania), AREVA H2 Gen (Francia), Giner (USA), Cummins-Hydrogenics (USA/Canada), H-TEC (Germania).

Elettrolisi a bassa temperatura: celle a membrana a scambio anionico

Una terza tecnologia a bassa temperatura sono gli elettrolizzatori a membrana a scambio anionico (AEMEL). Benché meno noti e di sviluppo più recente, hanno recentemente mostrato ottimi progressi e vi sono diversi produttori a livello proto-commerciale. Operano a bassa temperatura (30-60°C) e possono unire i vantaggi dell’ambiente alcalino (assenza o forte limitazione della presenza di materiali nobili) e dell’elettrolita solido (membrane polimeriche capaci di trasferire selettivamente ioni OH-). Un vantaggio rispetto agli AEL è la riduzione della presenza di fluido corrosivo, mentre rispetto ai PEMEL si evidenziano costi inferiori per le membrane e per l’utilizzo di materiali meno costosi.

La tecnologia è tuttavia a uno stadio di sviluppo inferiore e meno omogeneo rispetto ad AEL e PEMEL. Tra i costruttori noti vi sono Enapter (Germania) ed EnStack (Italia).

Elettrolisi ad alta temperatura: celle ad ossidi solidi

Gli elettrolizzatori ad ossidi solidi (SOEL, Solid Oxide ELectrolysis) producono idrogeno a partire da acqua in forma di vapore e si trovano attualmente a un livello di sviluppo pre-commerciale. Operano a temperature elevate (600-900°C), con impiego di elettroliti ceramici ad ossidi solidi a scambio ossigeno. Punto di forza di questi dispositivi sono i rendimenti elettrici più elevati, superiori all’80% ed anche >90-95% a seconda delle opzioni di integrazione termica, realizzabile ad esempio in processi industriali che comprendono sezioni ad alta temperatura (es. produzione di acciaio, raffinerie), su cui sono infatti in corso progetti rilevanti finanziati da programmi di ricerca quali Horizon2020 in Europa e H2@Scale in USA. Sono di contro caratterizzati da una limitata flessibilità operativa, non compatibile con frequenti on/off a causa delle alte temperature, che comportano elevata inerzia e richiedono lenti transitori termici per non compromettere i materiali. Allo stato attuale, i costi d’investimento sono ancora elevati, sia pure con prospettive di forte calo al crescere dei volumi produttivi, e la vita utile dimostrata (dell’ordine delle 20-30.000 h) presenta ancora necessità di miglioramento.

Gli elettrolizzatori ad ossidi solidi utilizzano i medesimi materiali delle celle a combustibile ad ossidi solidi (SOFC), tanto che un altro punto di forza è la possibilità di funzionare in modo completamente reversibile, alternativamente come fuel cell, producendo elettricità e consumando idrogeno, e come produttori di idrogeno consumando elettricità, con potenzialità molto interessanti per applicazioni di accumulo energetico. Possono, inoltre, operare con fluidi diversi dall’acqua, ad esempio con CO2 per la produzione di gas sintetici, con la capacità di integrarsi utilmente in numerosi processi chimici.

I costruttori principali sono players del settore delle fuel cell ad ossidi solidi, tra i quali ad esempio Sunfire (Germania), FuelCell Energy (USA), SolidPower (Italia), Ceres Power (UK), Aisin Seiki (Giappone).

Sono in fase di R&S anche altre tecnologie, qui non trattate per ragioni di spazio e per lo stato di sviluppo ancora a livello laboratoriale, quali gli elettrolizzatori basati su elettroliti ceramici a scambio protonico (proton conducting ceramic electrolyte cells PCCEC) e su elettroliti a carbonati fusi (molten carbonate electrolysis cells, MCEC).

La Tabella seguente riporta le principali caratteristiche delle quattro tecnologie di elettrolisi qui citate, fornendo valori indicativi per alcuni parametri di riferimento fisici, elettrici e di prestazioni.

Dal punto di vista dei costi di investimento, i costi dipendono fortemente dalla scala degli impianti e dal livello di industrializzazione delle diverse tecnologie. I costi specifici minori sono oggi offerti dalle tecnologie AEL e PEMEL in particolare per taglie multi-MW, dove è possibile scendere sotto ai 1000 €/kWel, con attese di forte riduzione per progetti sulla scala delle decine o centinaia di MW. In generale, al procedere della prevista industrializzazione per produzione su vasta scala, diversi studi indicano raggiungibili costi di sistema completo inferiori ai 500 €/kWel, che potranno rendere queste tecnologie via via più attraenti e capaci di ridurre in modo netto il costo di produzione dell’idrogeno rinnovabile.

Tabella – Caratteristiche delle principali tecnologie di elettrolisi

Fonte: Nostre Elaborazioni