I cambiamenti climatici sono strettamente connessi con la storia geologica e biologica del nostro pianeta. Avvengono da miliardi di anni e sono stati almeno la con-causa di diverse estinzioni di massa che hanno costellato l’evoluzione della vita sulla terra. Dalla fine dell’ultima glaciazione, circa 11.000 anni fa, la stabilità del clima è stata forse la causa primaria che ha permesso lo sviluppo delle società umane, la loro diffusione nel pianeta, la nascita dell’agricoltura e con essa l’emergere degli insediamenti umani e delle grandi civiltà.
Nel 1750 circa, in Inghilterra, l’inizio della cosiddetta rivoluzione industriale fu caratterizzata dall’impiego del carbone di origine fossile per rispondere alla crescente necessità di energia della nascente industria manifatturiera. Da allora, con la scoperta del petrolio negli Stati Uniti nella seconda metà dell’ ‘800, l’impiego del gas naturale - sempre di origine fossile - nel ‘900, e la crescente produzione di cemento (che rilascia anidride carbonica dalla calcinazione dei carbonati), le attività umane hanno immesso nell’atmosfera una quantità crescente di anidride carbonica che non faceva parte del ciclo naturale del carbonio, ciclo che permette il mantenimento della vita sulla Terra, facendone aumentare la concentrazione nell’atmosfera da circa 270 parti per milione (ppm) nel 1750 a circa 415ppm oggi.
La CO2 è un “gas serra” in quanto capace - come il vetro di una serra - di intrappolare nell’atmosfera parte della radiazione termica che la Terra, colpita dai raggi solari, riflette verso lo spazio. L’aumento della sua concentrazione fa salire la temperatura della colonna d’aria, e questo a sua volta fa sì che si possa formare una maggiore concentrazione di vapore acqueo, gas serra ancora più potente della CO2. Più CO2 nell’atmosfera vuole quindi dire riscaldamento globale. Dal 1750 ad oggi, la temperatura superficiale media della Terra è salita di 1,1°C (e cresce al ritmo di 0,2°C ogni 10 anni), ma è già salita di quasi 2°C sulle terre emerse, e di quasi 3°C nell’Artico. Le proiezioni dell’IPCC indicano che in assenza di politiche di lotta ai cambiamenti climatici alla fine di questo secolo la temperatura superficiale della Terra potrebbe essere superiore di 5°C a quella del periodo pre-industriale.
Il riscaldamento globale provoca sconvolgimenti climatici che già oggi sono visibili, con un aumento della frequenza e dell’intensità di fenomeni meteorologici come temporali, tempeste di neve e ghiaccio, uragani, ondate di calore, con conseguenti inondazioni, distruzioni di infrastrutture, incendi boschivi, frane, rischi diretti per la vita umana e fenomeni a dinamica più lunga come la crescita del livello dei mari o l’estinzione di massa di specie animali e vegetali.
La CO2 è una molecola molto stabile che può rimanere nell’atmosfera per centinaia di anni. Ogni molecola in più che produciamo bruciando carbonio fossile la ritroviamo per il 46% circa nell’atmosfera, per il 31% viene catturato dalle piante sulle terre emerse, e il 23% circa va negli oceani causandone una loro progressiva acidificazione.
Per questo, nel dicembre 2015, nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, la comunità internazionale ha sottoscritto l’Accordo di Parigi che mira a governare il mantenimento del riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, e più vicino possibile a 1,5°C, soglie considerate pericolose da sorpassare.
Per ottenere questo obiettivo, le emissioni globali di gas a effetto serra – principalmente la CO2, ma anche il metano (soprattutto prodotto dall’estrazione dei combustibili fossili e dall’allevamento dei bovini) e l’ossido nitroso (derivante dall’uso di fertilizzanti azotati in agricoltura) – devono essere portate a ZERO entro 20-30 anni. Azzerare le emissioni vuol dire fermare la combustione dei combustibili fossili, o più propriamente non bruciare più combustibili fossili senza rimuovere la CO2 dai fumi (processo, peraltro, molto costoso e mai efficiente al 100%) e cambiare parte delle nostre abitudini alimentari e pratiche agricole.
La totale decarbonizzazione della società non è un’opzione negoziabile, è una necessità. E io aggiungo che non è neanche una questione di costi, in quanto il costo dei danni globali che abbiamo già “prenotato” anche per il futuro con le emissioni già generate è tale che non è accettabile parlare di “convenienza” per decidere se decarbonizzare o no. L’imperativo oggi è quello di mantenere il riscaldamento globale nell’ambito dei limiti dell’Accordo di Parigi cercando di mettere in atto una transizione che sia quanto possibile “cost-effective”, vantaggiosa, e che sia “giusta e equa” nel suo effetto distributivo di costi e benefici tra Paesi ricchi, grandi emettitori e produttori di combustibili fossili – che sono quelli che hanno beneficiato di due secoli e mezzo di emissioni – e Paesi meno sviluppati, così come all’interno dei Paesi stessi.
La Commissione Europea ha fatto molto bene a proporre una ambiziosa e articolata politica climatica per l’Unione sotto l’egida dell’European Green Deal, facendone una bandiera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa e fissando la neutralità climatica al 2050. È un progetto che deve essere aiutato e supportato, anche se forse non sufficiente, sapendo che si potrà rendere più efficace in corso d’opera.
La rapida decarbonizzazione che ci deve portare a emissioni zero entro il 2050 (e sicuramente prima nei Paesi ricchi) deve aggredire il problema con la trasformazione del sistema di generazione dell’elettricità basata sulle energie rinnovabili (e su quella porzione di nucleare che andrà man mano diminuendo). I costi delle rinnovabili sono già oggi competitivi anche senza tasse sul carbonio, e l’estensione del mercato porterà a ulteriori riduzioni di costo. La difficoltà sta nel progetto di cambiamento che non può essere a settori, ma deve essere di “sistema”. Infatti, in parallelo si dovranno elettrificare i trasporti, l’industria, si dovranno integrare sistemi di stoccaggio dell’energia per bilanciare l’intermittenza delle rinnovabili, e si dovranno produrre combustibili puliti (idrogeno e e-fuels) per quegli usi difficilmente elettrificabili (il trasporto aereo ad esempio).
È un nuovo “sistema” energetico che va attuato, a sua volta integrato alla bio-economia, che dovrà poter produrre non solo il cibo per un pianeta abitato da 10 e più miliardi di persone, ma fare questo minimizzando gli sprechi, utilizzando le biomasse residue come feedstock per la chimica verde e al tempo stesso assicurando la biodiversità. Le idee ci sono, e questa complessa trasformazione è un’occasione unica di nuovo sviluppo sostenibile.
Un pianeta più caldo comporta comunque degli impatti e dei rischi a cui dobbiamo adattarci costruendo resilienza nelle società, in particolare al livello dei territori.
Il riconoscimento della nostra vulnerabilità è un passo importantissimo per un profondo cambio di visione del mondo, dalla visione biblica dell’umanità a cui Dio ha offerto “dominio” sulla Terra e che nella sua evoluzione nella storia ha generato i problemi di oggi, ad una visione della responsabilità dell’umanità a prendersi cura della propria casa comune.
Io penso che la compartecipazione dei cittadini, delle loro istituzioni, del mondo delle imprese, del mondo della scienza e dell’educazione in un grande progetto di cura del territorio e della società sia il modo per generare consapevolezza e avviare un grande cambiamento nel modo di pensare anche politico. Dobbiamo costruire insieme resilienza, non soltanto verso gli impatti dei cambiamenti climatici da cui possiamo partire, ma anche verso future pandemie o altre vulnerabilità che la nostra fragile società si rifiuta di affrontare in anticipo, preparandosi, nonostante la scienza ne preveda il futuro possibile accadimento. E il mondo dominato dalla tecnica ne aumenta la vulnerabilità quando invece potrebbe aumentarne la resilienza.
La crisi climatica – come anche quella pandemica - ci offre la possibilità, come scrisse Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, di dimostrare che l’umanità è in grado di utilizzare tutte le sue capacità per il bene comune. Facciamolo, e diventeremo tutti migliori.
Andrea Tilche è ricercatore nel campo dell’acqua, ha lavorato per 20 anni a Bruxelles alla Commissione Europea sulla ricerca ambientale e ha rappresentato l’Unione Europea all’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Oggi si occupa della transizione climatica presso le Università di Tromsø e di Trondheim in Norvegia. Vive a Bologna.