L’Italia e l’Europa sono alle prese con l’ennesima crisi economica degli ultimi decenni. Una crisi che si inserisce in quella che avrebbe dovuto essere una fase transizione energetica e produttiva di portata storica, perlomeno entro i confini dell’Unione europea. Che tipo di crisi stiamo attraversando? Quali interventi sono necessari per ripartire? Quali priorità per il Recovery Plan? Come combinare obiettivi climatici e rispetto della competitività? Ne abbiamo parlato con il professor Carlo Cottarelli, economista, ex commissario alla spending review e oggi direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani.

Cosa aspettarsi da questa nuova crisi e quali le differenze rispetto alle precedenti?

È vero, siamo di fronte all’ennesima crisi, ma cerchiamo di focalizzarci sul lato positivo. Per la prima volta in tanti anni non abbiamo un problema di liquidità: nelle precedenti crisi del 1992, del 2008-09 e 2011-12, la paura era che lo Stato italiano essendo già molto indebitato non potesse permettersi di utilizzare risorse per sostenere l’economia e investire sul rilancio. Una situazione che nel febbraio di quest’anno sembrava ripresentarsi tale e quale, quando si è capito che il Covid stava colpendo l’Italia e i tassi di interesse hanno cominciato ad aumentare. Poi però sono arrivate le risorse massicce dall’Europa, tutto il deficit pubblico di quest’anno è stato finanziato da acquisto dei titoli di stato da parte della BCE e più o meno lo stesso avverrà il prossimo anno. Questo consente al governo italiano di fare due cose. La prima sta già avvenendo: fornire un sostegno all’economia attraverso un trasferimento di fondi dallo Stato all’economia. Sappiamo che non sempre lo Stato riesce a spendere questi soldi in maniera sufficientemente rapida e non sempre i soldi arrivano nel posto giusto, ma il dato di fatto è che nel 2020 lo Stato ha immesso €30 miliardi attraverso la copertura del debito e nell’anno che verrà questa iniezione di liquidità dovrebbe aggirarsi sui 180 miliardi, un’entità mai raggiunta dal dopoguerra ad oggi. Ad essa si aggiungono le risorse del Next Generation EU, che dovrebbero arrivare nei prossimi 5 anni per finanziare iniziative volte non solo a rilanciare il Pil nell’immediato ma anche a sostenere la crescita dell’economia italiana attraverso quelle riforme che noi non siamo stati capaci di fare in passato anche per mancanza di finanziamenti.

Risorse che però derivano da uno scostamento di bilancio che porta l’indebitamento netto dell’Italia al 10,4% e un debito pubblico al 155,7% del PIL. Non vi è il rischio che le gioie sul breve termine si trasformino in dolori sul lungo termine?

Non sono soldi regalati, certamente, però va sottolineato che si tratta di indebitamento verso le istituzioni europee (BCE e UE) il che è meglio del debito verso i mercati finanziari perché è un finanziamento più stabile. Si tratta pur sempre di un debito e in quanto tale bisogna intervenire sulla crescita. Negli ultimi 10 anni il tasso medio di crescita è stato dello 0,2%, oggi dobbiamo capire come portarlo almeno al 2% annuo.

Proviamo allora a disegnare questa parabola di crescita. Quali sono le priorità?

In parte le indicazioni di spesa ci arrivano direttamente dall’Europa, che chiede che il 37% delle risorse del Next Generation EU siano destinate a investimenti pubblici green. Poi vi sono gli investimenti nella digitalizzazione, volti anche al miglioramento della pubblica amministrazione, il che è un punto a mio avviso fondamentale: uno degli svantaggi dell’Italia è infatti aver avuto una pubblica amministrazione caratterizzata da troppa burocrazia e da una lentezza spaventosa e questo problema potrebbe essere risolto attraverso la digitalizzazione. Attenzione però a non limitare le soluzioni ai problemi della PA al solo digitale. Si è visto in passato come sia necessario dare incentivi giusti. Se si premiano tutti i dirigenti pubblici nello stesso modo come è avvenuto dopo la legge Brunetta del 2010, allora è difficile che si creino incentivi tali da gestire bene la cosa pubblica. Inoltre, serve investire in pubblica istruzione, la grande Cenerentola della spesa pubblica negli ultimi 15 anni. Un piano di riforme e di investimenti che parta dagli asili nidi (siamo gli ultimi in Europa) e arrivi fino alle università (dove siamo i penultimi come spesa procapite).

Recentemente ha parlato anche di sistema giudiziario…

Questa è una cosa importante. Ho apprezzato che nel Recovery Plan circolato in questi giorni la riforma della giustizia fosse al primo punto. Sono un po’ meno convinto che quello che il governo sta facendo sia sufficiente, ma perlomeno vi è la consapevolezza che senza un sistema giudiziario efficace ed efficiente in tutti i suoi comparti (civile, penale, tributario e amministrativa) nessun sistema economico potrà esprimersi al meglio. I tempi della giustizia civile in Italia sono tre/quattro volte superiori a quelli della giustizia civile in Germania, il doppio di quelli in Francia, più del doppio di quelli che si registrano in Spagna. C’è anche una questione di riforma fiscale che non sta nel Recovery Plan ma che il governo intende portare avanti, una necessità di ridurre la tassazione sul lavoro (cd. cuneo fiscale) che però va associata alla ricerca di fonti di finanziamento permanenti. Il Recovery Plan fornisce ampie risorse, molte delle quali a fondo perduto, ma si tratta di risorse temporanee, non dimentichiamocelo.

Un forte accento è stato posto sull’ambiente e le politiche climatiche, un punto cardine del Next Generation EU che al tempo stesso si presenta come uno dei nodi più insidiosi. Lei che idea si è fatto?

Prima di arrivare al nocciolo della domanda vorrei sottolineare un punto che trovo dirimente. Per quanto le politiche industriali siano importanti, non dobbiamo dimenticarci che ci troviamo in un’economia di mercato e che sarà il mercato attraverso i suoi attori privati ad indicarci quali settori dovranno svilupparsi e verso quale direzione. Il ruolo dello Stato è innanzitutto quello di non mettere bastoni tra le ruote al settore privato attraverso regole inutili e inefficienti, in secondo luogo deve garantire che vi sia una maggiore concorrenza scardinando quei sistemi monopolistici che si stanno sviluppando in Italia e non solo, in terzo luogo lo Stato deve assicurare a ciascun cittadino un’opportunità a prescindere dalle condizioni individuali di partenza, attraverso investimenti in istruzione e politiche di redistribuzione della ricchezza. Per quanto riguarda le politiche climatiche e ambientali, la situazione non è diversa. Sono gli investitori privati a dover mostrare la propensione o meno a riconoscere il valore della sostenibilità e il rispetto dei target climatici. Se questo non dovesse succedere e dovessero presentarsi anomalie rispetto alla direzione indicata dall’Unione europea sarà lo Stato ad intervenire attraverso tutti i mezzi che ha a disposizione: regolazione, tassazione, imprese pubbliche. Ma l’equilibrio è molto labile e complesso.  Ad esempio, io sono favorevole ad una carbon tax se non mondiale almeno europea, ma va detto che già oggi l’Italia ha una tassazione dei prodotti energetici molto più elevata rispetto a Stati Uniti, Giappone e altri paesi. Come evitare che un intervento fiscale, per quanto corretto, non si traduca in ulteriore perdita di competitività? Allo stesso tempo credo che sia necessario perseguire un phase out graduale dei sussidi alle fonti fossili accompagnato da una transizione verso le energie rinnovabili, ma difficilmente questo passaggio sarà esente da ricadute sia in termini occupazionali che di opinione pubblica. Andrà quindi valutato un piano di compensazioni ai settori che vanno verso la dismissione che si accompagni al piano di incentivi che si prevede per le energie “pulite”.