Nella superstizione l’anno bisesto è quello funesto per antonomasia. E fin qui pare che il 2020 non smentisca la credenza popolare. Tra pandemia, profezie catastrofiche ambientali, finanziarie, socio-economiche, il settore energetico è alle prese anche con l’ennesimo obbligo di riduzione dei gas serra climalteranti (GHG) nel settore dei trasporti, su decisione isolata e unilaterale dell’Unione Europea. L’articolo 7-bis del Decreto Legislativo n.66/2005, a recepimento della direttiva UE sulla qualità della benzina e del diesel, stabilisce infatti che, proprio a partire dal 2020, il settore trasporti è obbligato a ridurre del 6% le emissioni di gas serra da carburanti ed energia elettrica rispetto al valore di riferimento di 94,1 gCO2eq/MJ (allegato V-bis 2 dello stesso Decreto).
L’obbligo grava per l’anno 2020 sugli operatori a monte della filiera che immettono in consumo i prodotti, ma la Commissione europea ha già specificato che l’obbligo rimarrà anche negli anni a seguire. Dunque carburanti ed energia elettrica per autotrazione, macchine mobili non stradali, trattori agricoli e forestali, imbarcazioni da diporto e altre navi per la navigazione interna (ovvero fiumi, canali, laghi e lagune; la navigazione marittima è esclusa).
Raggiungere l’obiettivo è tutt’altro che semplice. Per alcuni operatori è anzi molto complicato. E mancarlo anche di poco comporta conseguenze assai serie: le sanzioni variano da 300.000 a 1 milione di euro, per ciascuna azienda, indipendentemente dalle quantità vendute e dalle dimensioni economiche dell’operatore. Una flat-tax ambientale intrinsecamente iniqua e sproporzionata.
In questa categoria rientrano, ad esempio, tanti piccoli e medi depositi fiscali che immettono in consumo quasi esclusivamente gasolio e che sono sprovvisti delle infrastrutture per effettuare la miscelazione diretta con biocarburanti in situ. Gasolio e benzina “puri”, peraltro, sono tra i carburanti con i fattori emissivi più elevati (rispettivamente in media 95,1 e 93,3 gCO2eq/MJ).
Non potendo fare altrimenti, le aziende acquistano carburante già miscelato a monte, senza poterne però conoscere il relativo fattore emissivo. Le informazioni necessarie sono infatti riportate nei cosiddetti “certificati di sostenibilità” che accompagnano ogni partita di biocarburante, ma restano nella disponibilità dei depositi a monte che hanno fisicamente miscelato la componente bio al carburante fossile. Chiedere i dati a loro? Più facile a dirsi che a farsi. In questi depositi si miscelano enormi quantità di prodotti con svariate partite di biocarburante, spesso di origine diversa (che quindi comportano GHG savings diversi), che vengono poi parcellizzati e ceduti a decine e decine di depositi minori lungo la filiera nel corso dell’anno. Tracciare in modo puntuale il GHG saving associato a ogni slot di miscelazione è cosa pressoché impossibile.
Nonostante tutte le difficoltà operative (impossibilità di miscelare, difficoltà nel recuperare i dati di GHG saving) e gli oggettivi limiti tecnici (lo standard EN590 fissa un tetto del 7% per la miscelazione di biocarburante FAME nel gasolio), non si può certo dire che la distribuzione di benzina e gasolio non si stia già sobbarcando l’onere di diffondere i biocarburanti e il raggiungimento degli obiettivi ambientali.
Va ricordato infatti che la percentuale di miscelazione obbligatoria di biocarburanti in benzina e gasolio è cresciuta molto rapidamente: dal 2015 al 2020 è quasi raddoppiata, passando dal 5 al 9%, di cui uno 0,9% deve ormai essere immessa sotto forma di biocarburanti avanzati.
L’assolvimento di quest’obbligo avviene – parzialmente o in molti casi totalmente – acquistando titoli negoziabili sostitutivi dell’obbligo della miscelazione fisica; si tratta dei “Certificati di Immissione in Consumo” (CIC), che hanno ormai costi tutt’altro che trascurabili che traslano fatalmente nelle tasche dei consumatori senza che ve ne sia chiara consapevolezza.
Nonostante il Ministero dell’Ambiente e il GSE abbiano recentemente sciolto la riserva sul valore di GHG saving da attribuire ai cosiddetti “CIC avanzati”, resta ancora oggi da capire se gli operatori potranno attribuire un valore di GHG saving anche ai CIC “tradizionali”, equiparabili in tutto e per tutto all’immissione in consumo fisica di biocarburanti. Se non si troverà una soluzione, tanti operatori saranno messi tra l’incudine e il martello: come potranno mai raggiungere l’obiettivo del 6%, senza poter conoscere il dato puntuale di GHG saving o quello associato ai CIC che comprano sul mercato?
Sulla materia occorre riportare ordine e chiarezza. Per questo Assopetroli-Assoenergia ha promosso insieme ad Assocostieri la costituzione di un gruppo di fornitori, che intanto possa ottemperare in forma aggregata all’obiettivo di riduzione dei gas serra (meno 6% nel 2020). Ciò in accordo con i Ministeri dell’Ambiente, dello Sviluppo Economico e il GSE.
La possibilità di aggregare i fornitori, oltre ad essere stata confermata da una nota del Ministero dell’Ambiente (del 27 dicembre 2019) pubblicata anche sul sito del GSE (link articolo GSE), è prevista dallo stesso articolo 7-bis comma 10 del D.lgs 66/2005.
Il traguardo del “Consorzio Nazionale Riduzione GHG” è finalmente stato raggiunto con la sua costituzione il 15 giugno 2020. La partecipazione resta aperta a tutti gli operatori incisi dall’obbligo, associati e non. Un bacino di imprese potenzialmente molto esteso: non parliamo infatti solo di benzina e gasolio, ma anche del mondo del GNC, GNL, GPL ed elettricità per autotrazione. L’obiettivo è riuscire a fare squadra e mettere in rete le aziende per raggiungere l’obiettivo ambientale comune. E quello subordinato è riuscire a diluire l’eventuale sanzione draconiana che è stata prevista su un ampia platea di soggetti sufficientemente estesa per evitare penalizzazioni sproporzionate.
Certo, resta l’auspicio – pro futuro – di una decisa semplificazione normativa. Nel frattempo, come sempre, facciamo di necessità virtù e, è proprio il caso di dirlo, l’unione fa la sostenibilità.