Nel panorama della liberalizzazione dei mercati dell’energia elettrica e del gas, il segmento della distribuzione del metano è forse quello nel quale le cose sono andate più diversamente rispetto alle attese. Dei progressi ci sono stati: oggi la verità contabile dei bilanci rispecchia la verità industriale dei gestori, che sono passati dai quasi 800 di fine anni ’90 a poco più di 200 oggi. Tuttavia, l’obbligo legislativo di individuarli attraverso procedure competitive è andato del tutto disatteso. Il Decreto Letta del 1999 prevedeva la scadenza delle concessioni in essere entro il 2005: nella realtà, quasi quindici anni dopo l’ARERA ha censito appena 18 procedure, solo una gara è stata assegnata (Torino 2) e soltanto quattro sono prossime alla chiusura.

Sarebbe un ingenuo eufemismo trattare la questione come se si trattasse di un mero ritardo nell’implementazione di norme complesse (che pure è parte della storia). La realtà è che vi sono forti resistenze, non solo perché taluni soggetti non hanno alcun incentivo a procedere (è il caso, per esempio, dei comuni proprietari di porzioni di rete), ma anche per una contraddizione negli obiettivi dichiarati dell’intera operazione. Da un lato, l’affidamento tramite procedure a evidenza pubblica serve a limitare l’estrazione di rendite monopolistiche e a superare le enormi asimmetrie informative. Dall’altro, si argomenta che solo una politica di aggregazioni può portare efficienza nelle gestioni. In entrambe le posizioni c’è del vero ma ambedue sono parziali.

La teoria della regolazione (e l’esperienza internazionale in molteplici ambiti) conferma che, nella gestione dei monopoli naturali, la concorrenza per il mercato rappresenta uno strumento efficace a perseguire due finalità. In primo luogo, la gara obbliga gli operatori incumbent a mettere a disposizione informazioni veritiere e complete sugli asset da assegnare. Il confronto coi costi dei concorrenti, e con quelli sostenuti negli altri ambiti, è cruciale per la buona regolazione. Infatti questo è, se non l’unico, il principale momento in cui il regolatore può approfondire e comprendere le ragioni dell’eterogeneità nei costi operativi e di investimento.

D’altro canto, la difficoltà a procedere con le gare ha fatto della strategia di aggregazione dei maggiori operatori uno dei principali driver di cambiamento. Di per sé, la crescita dimensionale dei gestori non è né buona né cattiva, ma occorre fissare alcuni paletti. Uno riguarda la vexata questio delle economie di scala. L’analisi preliminare dell’Autorità, risalente a un decennio fa, non ha fatto emergere grandi ritorni al crescere della dimensione, oltre una soglia molto bassa – nell’ordine delle decine di migliaia di punti di riconsegna (PDR) – ma ha ugualmente evidenziato diseconomie di scala per le imprese di distribuzione molto grandi (oltre i 500 mila PDR). Si tratta di dati da prendere con le pinze, anche alla luce della grande variabilità, ma ugualmente significativi: tant’è che la RAB per metro lineare per gli operatori di medio-piccole dimensioni (per esempio, il campione delle aziende associate ad Assogas), con un valore medio attorno ai 37 euro, è decisamente inferiore sia alla media del centro-nord (63 euro), sia al maggior operatore (103 euro). Vero è che il progresso tecnologico può far crescere la dimensione “ottima”, vista la natura capital intensive degli investimenti richiesti.

Le due posizioni – gare o aggregazioni – sono inconciliabili solo all’apparenza. Proprio negli ultimi anni abbiamo assistito a importanti spinte alla concentrazione. Dal punto di vista regolatorio, l’individuazione di 177 Atem rappresenta un ragionevole compromesso tra riduzione delle barriere all’ingresso e contrasto alle inefficienze. Se, invece, guardiamo alla struttura del mercato, pur rimanendo relativamente poco concentrato, rimane il fatto che la quota di mercato del maggior operatore rasenta il 30%, mentre i primi cinque arrivano congiuntamente al 57%. I 57 piccolissimi operatori distribuiscono una quota residuale del gas (meno dell’1%), mentre un centinaio di piccoli soggetti tutti assieme non arrivano al 10% del totale. La frammentazione, insomma, appare una preoccupazione assai meno pressante rispetto al passato.

L’attenzione e il capitale politico, dunque, dovrebbero spostarsi dagli assetti industriali alle procedure di gara. Infatti, l’organizzazione delle gare – magari scaglionate nel tempo – è essa stessa un potenziale viatico per le aggregazioni, nella misura in cui queste sono economicamente vantaggiose. L’eventuale crescita dimensionale delle aziende sarebbe il risultato di un processo di mercato guidato dall’efficienza, e non di un approccio top down inevitabilmente esposto a valutazioni politiche e potenziali rischi di cattura. Con la regolazione asimmetrica l’Autorità ha posto le premesse per promuovere la partecipazione alle gare e attenuare il comunque indiscutibile vantaggio degli incumbent – specie negli Atem in cui essi controllano una quota rilevante dei pdr. Restano da superare le resistenze degli uscenti e soprattutto da rimuovere i disincentivi – finanziari per i comuni e legati alle complessità amministrative per tutti gli altri – che finora hanno indotto un po’ tutti a traccheggiare. La situazione attuale è insoddisfacente per tutti. Ma difficilmente si potrà uscirne senza adottare adeguati correttivi, e soprattutto senza prendere consapevolezza che il problema è tecnico solo all’apparenza: serve, prima e soprattutto, che qualcuno si intesti politicamente la soluzione di un problema che reclama attenzione ormai da un decennio.