L’acqua ricopre oltre il 70% della superficie terrestre, ma solo lo 0,027% dell’intera torta è acqua dolce disponibile all’uso umano: una piccola fetta, che diventa ogni anno più sottile e contesa mentre la popolazione globale cresce e i cambiamenti climatici avanzano. Ma se l’umanità può rinunciare al petrolio di certo non può fare a meno dell’acqua, la cui scarsità ci pone già oggi di fronte a sfide ciclopiche. Non si tratta più di previsioni futuribili, ma di cronaca.

 

La sesta città più popolosa dell’India, Chennai, si è ritrovata quest’anno con i suoi bacini idrici praticamente asciutti; questo significa circa 10 milioni di persone di colpo senz’acqua, un’enorme città sprofondata in una crisi da approvvigionamento idrico dove i cittadini arrivano ad accoltellarsi per accaparrarsi il poco oro blu che arriva nei quartieri trasportato su camion. 

Senza andare troppo lontano, anche la città di Roma – senza accoltellamenti, per fortuna – si è trovata costretta nell’estate 2017 a razionare l’acqua a causa di un contesto reso particolarmente difficile dalla siccità.

 

Allargando il campo d’osservazione all’intero anno meteorologico 2017 (dicembre 2016-novembre 2017), dal Cnr testimoniano infatti che per l’Italia si è trattato dell’anno più siccitoso dall’inizio del 1800; un’annata eccezionalmente problematica inserita però all’interno di una tendenza ben definita dato che, nel nostro Paese, la sequenza dei giorni continui senza precipitazioni è aumentata in media del 15% (del 15-20% sull’Appennino) solo negli ultimi 25 anni.

Si tratta di una tendenza globale. Il Rapporto mondiale delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche 2019, dal titolo “Nessuno sia lasciato indietro”, mostra che già oggi più di 2 miliardi di persone vivono in paesi soggetti a tassi di elevato stress idrico, mentre circa 4 miliardi di persone devono affrontare gravi scarsità idriche per almeno un mese l’anno; tre persone su dieci non hanno accesso ad acqua potabile sicura e sei su dieci non hanno accesso a servizi igienico-sanitari sicuri. Nel frattempo la domanda globale d’acqua è destinata a crescere di circa l’1% l’anno fino al 2050, in ragione soprattutto della crescente domanda a livello industriale e domestico legata anche alle tendenze demografiche.

 

Nelle scorse settimane il World Resource Institute (WRI) ha esplorato questo scenario sulla base di nuovi modelli idrologici, scoprendo che i prelievi idrici a livello globale sono più che raddoppiati dagli anni ‘60, e non mostrano segni di rallentamento. Come risultato, già oggi 17 Paesi – nell’ordine Qatar, Israele, Libano, Iran, Giordania, Libia, Kuwait, Arabia Saudita, Eritrea, Emirati Arabi Uniti, San Marino, Bahrein, India, Pakistan, Turkmenistan, Oman, Botswana – che ospitano un quarto della popolazione mondiale stanno affrontando livelli “estremamente elevati” di stress idrico di base, dove l’agricoltura irrigua, le industrie e i comuni emungono in media ogni anno oltre l’80% della loro disponibilità. Sono invece 44 i Paesi (una classifica chiusa dall’Italia) che affrontano livelli “elevati” di stress idrico: al loro interno vive un terzo della popolazione globale, che in media ogni anno emunge più del 40% dell’offerta d’acqua disponibile.

 

L’altra faccia della medaglia è quella della desertificazione. L’ultimo Atlante mondiale della desertificazione elaborato dal Joint research centre (Jrc) dell’UE mostra che sono già 13 gli Stati membri colpiti dal fenomeno, con costi economici legati al degrado del suolo stimati nell’ordine delle decine di miliardi di euro all’anno: Italia, Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Lettonia, Malta, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria. «Stiamo assistendo ad un incremento della siccità, dell’aridità e del rischio di desertificazione dovuto ai cambiamenti climatici nell’UE – spiega Phil Wynn Owen, responsabile della Corte dei conti europea per la relazione condotta sul tema – La desertificazione può comportare povertà, problemi di salute dovuti alla polvere portata dal vento, nonché una diminuzione della biodiversità. Può anche avere conseguenze demografiche ed economiche, costringendo la popolazione a migrare lontano dalle aree colpite». Si tratta ormai di un dato di fatto, eppure «non esiste una strategia, a livello UE, per far fronte alla desertificazione e al degrado del suolo».

 

Una realtà che vale anche per il nostro Paese, nonostante circa il 20% del territorio nazionale sia già classificato a rischio desertificazione. Anzi: l’Istat ha aggiornato quest’anno le statistiche sui consumi e le perdite idriche nazionali, dalle quali risulta che «il volume di acqua complessivamente prelevato per uso potabile dalle fonti di approvvigionamento presenti in Italia è di 9,49 miliardi di metri cubi nel 2015, pari a un volume giornaliero pro capite di 428 litri, il più alto nell’Unione europea. Tuttavia, poco meno della metà di tale volume (47,9%) non raggiunge gli utenti finali a causa delle dispersioni di rete». Significa che, attraverso un piano d’investimenti adeguato per migliorare le condizioni di tubazioni e condotte idriche, potremmo salvare ogni anno buona parte degli oltre 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua potabile che oggi vanno inutilmente sprecati. Ad oggi gli investimenti nel servizio idrico nazionale ammontano a 3,6 miliardi di euro/anno, in netto aumento (circa il triplo) rispetto al 2013, ma – in un contesto che rischia di essere stravolto dalla proposta di legge Daga su “l’acqua pubblica” in corso d’esame parlamentare – occorre crescere ancora per arrivare almeno alla quota di 5 miliardi di euro/anno, finanziata attraverso una tariffa idrica che è ancora tra le più basse d’Europa, ritenuta necessaria dalla aziende di settore.

 

Gran parte della battaglia per migliorare la gestione delle risorse idriche nazionali andrà combattuta sui campi agricoli, dato che in Italia il settore «si contraddistingue per essere il maggiore utilizzatore di acqua», con «più del 50% del volume complessivamente utilizzato in Italia destinato all’irrigazione». Si tratta di una sfida che risuona anche a livello globale, dove secondo il rapporto del WRI sono tre le principali azioni da mettere in campo per contrastare la crisi idrica globale.

Oltre al già citato efficientamento nel settore agroalimentare – non solo nei campi agricoli ma anche abbattendo lo spreco di cibo – è necessario investire per migliorare le infrastrutture idriche sia artificiali (e lo stato-colabrodo della rete italiana mostra bene il perché) sia naturali (come zone umide e bacini idrici). Infine, dobbiamo smettere di pensare alle acque reflue come rifiuti: come spiegato già dall’Onu nel 2017 si tratta di introdurre processi mirati di gestione e di riciclo dell’acqua che utilizziamo nelle nostre case, nelle fabbriche, nelle aziende agricole e nelle città, in quanto le acque reflue, una volta trattate, potrebbero dimostrarsi una risorsa di enorme valore, in grado di soddisfare la crescente domanda di acqua dolce e di altre materie prime. Anche su questo fronte l’Italia ha molto da lavorare, dato che sta già subendo tre distinte procedure d’infrazione da parte europea, e per una di queste è già stata condannata a pagare una multa di 25 milioni di euro (più 30 milioni di euro per ogni semestre di ritardo).