Di certo, qualora vi fosse un'area di leadership che l'Unione Europea, tra le mille astenie e divisioni interne, può vantare, essa è rappresenta dalle policy a favore dell'ambiente e della sostenibilità. Da Kyoto in poi la sua azione a favore di vincoli stringenti alla riduzione delle emissioni è stata continua. Lo stesso target dei 2° C, fulcro dell'Accordo di Parigi, è stato proposto dall'Unione Europea nel lontano 1996. In altri termini, ci sono voluti 20 anni prima che gli altri paesi si allineassero all'Europa. Ciò che si evince studiando target, strategie e documenti della UE è che essa crede con fermezza nell'eden della sostenibilità. Ma lo sviluppo sostenibile è problema planetario, rispetto al quale lo slancio europeo può ben poco. Quando poi si tenti un'analisi ci si trova di fronte a un'aporia. Ciò che più stupisce, infatti, dell'intera questione della sostenibilità è la distanza tra narrazione e fatto. Da una parte sta l’esplicitazione degli obiettivi – planetari, europei, nazionali, aziendali, regionali, cittadini – dall’altra sta la cruda realtà. Al crescere brulicante delle iniziative – sustainability festival, sustainability day, climate day, recycling day, per citarne solo alcune – si contrappone, implacabile, il crescere delle emissioni. E’ difficile, se non impossibile, imbattersi oggi giorno in qualcuno – persona, stato, città, istituzione pubblica o privata – che non sia e non si dichiari a favore di uno sviluppo sostenibile ovvero di qualcosa che, detto in parole povere, lasci il pianeta a chi verrà dopo in condizioni accettabili, anzi vivibili, poiché è proprio la vivibilità a essere in gioco. Eppure, proprio negli anni in cui si moltiplicano le umane iniziative celebranti l’aulico e nobile obiettivo della sostenibilità, le emissioni di carbonio crescono. Di fronte a tale iato, la mente corre a quelle parole lapidarie - efficaci come solo certe sentenze icastiche sanno essere - che Soren Kierkegaard scriveva nel suo capolavoro Aut-Aut: “Ogni uomo è un ipocrita nato”. E, aggiungiamo noi - Kierkegaard ci perdonerà - la parola è il manto dell’assenza. Poiché l’azione latita, la parola lievita.
Ma, si dirà, non è così: questa visione è eccessivamente pessimistica e non tiene conto dei progressi che si stanno facendo in numerosi campi. Basta leggere l’ultimo Report delle Nazioni Unite sui Sustainable Development Goals (SDG) per rendersi conto che non tutto è terra bruciata ma, al contrario, vi sono aree di sensibile miglioramento. Come afferma il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guteress nella sua introduzione al Report, il tasso di mortalità materna nell'Africa subsahariana è diminuito del 35%, quello di mortalità sotto i cinque anni è diminuito del 50% e nei paesi meno sviluppati la percentuale di persone che hanno accesso all'elettricità è più che raddoppiato. Certo, Guterres aggiunge anche che a poco più di dieci anni di distanza dalla scadenza del 2030, vi sono diversi contesti nei quali i progressi sono insufficienti e, pertanto, un’accelerazione è necessaria. Di fatto, però, nel complesso il Report dipinge un quadro in chiaroscuro: molto resta ancora da fare ma qualcosa si è fatto. Nessuno vuole negarlo. Usando uno strumento di maggiore sofisticazione rispetto agli SDG quali le curve ambientali di Kuznets, è innegabile che vi siano inquinanti per i quali vi è evidenza dell’esistenza di tali curve. Ad esempio, le emissioni di anidride solforosa e particolati diminuiscono oltre un certo livello di reddito pro-capite. E ciò ha un effetto complessivo positivo, puntualmente catturato dall’andamento decrescente dei volumi totali di tali inquinanti, nel mondo e in numerose aree.
Se questa è la realtà, perché allora dire che il quadro è solo scuro? La ragione potrebbe essere spiegata con una metafora: se un malato di cuore ha avuto un attacco cardiaco e rischia di morire perché l’organo è fortemente danneggiato, miglioramenti dello stato di una frattura alla gamba o al piede rappresentano elementi positivi ma di scarsa consolazione. Il cambiamento climatico è un attacco al cuore del pianeta, ovvero alla stessa sopravvivenza dell’uomo. Citiamo a scopo esemplificativo i risultati del recente studio pubblicato da Jonathan Bamber e altri studiosi delle Università di Bristol, Princeton, New Brunswick e Delft sui PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) degli Stati Uniti. L’articolo si chiude con le seguenti parole: “We find it plausible that Sea Level Rise (SLR) could exceed 2m by 2100 for our high-temperature scenario, roughly equivalent to business as usual. This could result in land loss of 1.79 M km2, including critical regions of food production, and displacement of up to 187 million people. A SLR of this magnitude would clearly have profound consequences for humanity”. Questo grido di allarme si aggiunge ad altri numerosi segnali, inascoltati, che la comunità scientifica periodicamente indirizza ai policy maker e all'opinione pubblica. In altre parole, siamo di fronte a una parte del mondo scientifico che va ben oltre il messaggio già critico dell'IPCC. Come già il climatologo dell'Università di Cambridge Peter Wadhams, Bamber e suoi coautori ripropongono l'ipotesi di un'eccessiva cautela insita negli scenari, già gravi, dell'IPCC, disegnando un futuro di disastri climatici imminenti.
Come ben sanno coloro che hanno superato la soglia dei 50 anni - nel cui inconscio il metro del tempo si è progressivamente accorciato a seguito di ripetuti lavaggi nell'umana esistenza - le otto decadi che ci separano dalla fine del secolo sono un battito di ciglia, intervallo assai più breve di quanto si immagini. Lo scenario di un innalzamento di 2 metri del livello del mare e di 187 milioni di migranti ambientali spiazzati dalla crescita del livello dei mari riduce la distanza tra scienza e finzione, avvicinando le proiezioni della prima ai quadri catastrofici dipinti dalla crescente letteratura ambientale. Di fronte a tale convergenza di scenari sta l'essere umano che non è in grado di allineare la parola all'azione, la narrazione al fatto. Perché accade tutto ciò? Forse nel giudizio di Kierkegaard - l'uomo è un ipocrita nato - risiede un pezzo di verità. Ma non l'unico, certo. Altre plausibili spiegazioni possono essere il conflitto degli obiettivi - le lenti degli occhiali dell'Unione Europea non sono quelle di Trump e Bolsonaro - oppure il conflitto degli strumenti - indeciso tra carbon tax ed emissions trading l'asino di Buridano muore di fame - oppure, più semplicemente, la discrasia quantità-qualità. Se fossimo dentro un film di Sergio Leone diremmo che esistono due categorie di persone - e di istituzioni - quelle che frequentano i numeri e quelle che li evitano. I primi tendono a tradurre il qualitativo in quantitativo, i secondi no. I primi, quando parlano di sviluppo sostenibile, traducono l'obiettivo nella sua implicazione quantitativa, i secondi ignorano questo passaggio e si fermano alla dichiarazione dell'obiettivo, se non al suo marketing. Di qui la dissociazione tra narrazione e realtà. In alcuni casi l'obiettivo è espresso in termini generici. Lo stesso obiettivo numero 13 dei Sustainable Development Goals, che si riferisce al cambiamento climatico, cade nell'errore di una declinazione generica e qualitativa. "Take urgent action to combat climate change and its impacts": eccolo il goal, nella sua nuda genericità. L'errore è già nell'origine, in un obiettivo che non si è riusciti a esprimere come numero. Esiste, invece, una matematica della sostenibilità, limpida e implacabile, spesso rimossa, che indica l'urgenza di modifiche straordinarie dei trend attuali. Alcuni numeri essenziali di questa drammatica contabilità sono i seguenti: le emissioni di CO2 generate dal sistema energetico nel 2030 dovrebbero essere secondo l'Accordo di Parigi - peraltro insufficiente e fino a oggi non rispettato - circa 35 miliardi di tonnellate, laddove occorrerebbe scendere a 26 per contenere la crescita della temperatura entro i 2°C (IEA, WEO 2018). Il prezzo di una tonnellata di CO2 implicito in questo scenario virtuoso è circa 140 doll. nel 2040, laddove oggi sul mercato dell'ETS vigono prezzi sui 25 €/ton. CO2. L'investimento complessivo insito nel target dei 2°C è, sempre secondo la IEA, intorno ai 38 trilioni di doll. dal 2015 al 2030, ovvero circa il 3,2% del PIL mondiale annuo. Al di là della narrazione dei sustainability day, stanno i dati. Essi ci dicono che è necessaria una rivoluzione copernicana. Essere consapevoli di ciò sarebbe già un grande passo avanti perché significherebbe aver compreso che l'adesione alla sostenibilità è mera retorica se essa non è assistita dalla conoscenza delle sue drammatiche implicazioni quantitative. Per questo sulla porta della Sostenibilità andrebbe riportata la famosa epigrafe che campeggiava sull'architrave dell'Accademia di Platone, ovvero "non entri chi non conosce la geometria", cioè il numero.
Tale considerazione dell'elemento quantitativo offre un'ulteriore chiave di lettura del gap narrazione-fatto e dell'impasse che blocca l'agire di homo sapiens oggi. Da essa scaturiscono due domande cruciali: è egli pronto a sostenere una carbon tax tra i 100 e i 150€ per tonnellata di CO2? E' egli disposto a destinare 3 punti percentuali del suo reddito annuo alla riduzione delle emissioni? Il cuore della questione è tutta qui, in questa dialettica costi-benefici che la retorica della sostenibilità tende a eludere, o a rimuovere. Queste due domande stanno oggi di fronte a tutti i paesi. Le risposte delle tre aree del mondo che generano metà delle emissioni mondiali - Cina, Stati Uniti, Europa - sono difformi. La Cina ha intrapreso un primo, timido passo verso un controllo delle emissioni totali, sebbene occorrerà attendere il 2030 prima che le stesse possano cominciare a stabilizzarsi o a diminuire. Gli Stati Uniti, con Trump, sono usciti dall'Accordo di Parigi e pertanto, finché la governance non cambia, a livello federale c'è attenzione nulla al clima, benché a livello di singoli stati si riscontri un certo attivismo. Diciamo che, sia sul piano formale che su quello sostanziale, la risposta di questi due paesi alle domande poste sopra è un No piuttosto secco. Infine, c'è l'Unione Europea che ha dato una risposta positiva a entrambe le domande e, quantomeno nei documenti ufficiali, ha disegnato una traiettoria netta di decarbonizzazione. E' una rivoluzione copernicana suffragata, però, solo parzialmente dai fatti, sia perché siamo solo all'inizio di una traiettoria la cui pendenza dovrà aumentare sensibilmente negli anni a venire, sia perché le riduzioni di carbonio finora realizzate sono state fortemente favorite dalla maggiore depressione economica occorsa nel mondo dalla grande crisi del 1929. Inoltre, tutta da verificare è la risposta dei cittadini europei all’introduzione di politiche climatiche sempre più aggressive, come dimostrano le recenti proteste in terra di Francia, innescate proprio da una carbon tax: nella progressione concepita dal governo francese, essa avrebbe dovuto raggiungere quota 55€/ton CO2 nel 2019, 65€ nel 2020, 76€ nel 2021, 86€ nel 2030. Come noto, ci si è fermati ai 45€ del 2018, appena un terzo rispetto al valore necessario. Dunque, questo primo test sull’innalzamento dell’asticella carbon tax ha avuto esito negativo. Ciò non implica che nuovi tentativi saranno destinati ancora a fallire, ma di certo quanto accaduto in Francia è un segnale dell’operare di quella distanza qualità-quantità della quale stiamo scrivendo: la sostenibilità è bella nella sua declinazione letteraria, meno in quella numerico-monetaria.
In ultima analisi, sembra che il genere umano vada ispirandosi alla famosa affermazione di Keynes "nel lungo periodo saremo tutti morti", reinterpretandola alla rovescia: proprio perché saremo tutti morti il problema non è nostro e dunque non c'è nessuna azione da compiere. E tuttavia, nonostante la rimozione umana, le due domande poste sopra restano in piedi. Anzi, più passa il tempo più esse diventano brutali. Esse sono come un Everest esistenziale che ogni essere umano deve decidere se scalare o meno. In ultimo esse ci riportano al punto di partenza, al Kierkegaard di Aut-Aut, non essendovi aut-aut più grande di quello che abbiamo di fronte: cambiare e salvare il pianeta, oppure non cambiare e perderlo. Ognuno dia la sua risposta, soprattutto scelga, finché può ancora farlo. Per citare ancora una volta le parole del triste danese: “Giunge un momento in cui l'uomo non ha più libertà di scelta, non perché ha scelto, ma perché non l'ha fatto, il che si può anche esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso”. Se stesso, certo, insieme al pianeta.
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