In teoria non c’è differenza tra teoria e pratica, ma in pratica c’è differenza. La battuta erroneamente attribuita a Yogi Berra si applica perfettamente, rovesciandola, alla distinzione tra politica ambientale e politica industriale. In teoria tra le due c’è una differenza molto netta, ma in pratica l’una sovente sfuma nell’altra.
In principio, la politica ambientale dovrebbe occuparsi di “correggere” il funzionamento del mercato in modo tale da imporre l’internalizzazione dei costi esterni, allineando il costo “privato” e quello “sociale” della produzione e consumo di energia. Viceversa, la politica industriale ha la presunzione di indirizzare le specializzazioni produttive di un paese verso quelle in grado di garantire la massima crescita futura. Non è questa la sede per discutere dell’efficacia dell’una e dell’altra. È tuttavia importante inquadrare correttamente la relazione tra di esse: ovviamente, politica ambientale e industriale hanno numerosi elementi di contatto, nel senso che ciascuna può essere vista come un vincolo sull’altra. Tra tutte le possibili scelte di policy per affrontare un certo problema ambientale è preferibile quella più economicamente efficiente, e tra tutte le opzioni di politica industriale sono meglio quelle che determinano i minori impatti ambientali. Entrambe, però, dovrebbero tener conto di un terzo e comune vincolo: non distorcere il funzionamento del mercato. Questo precetto, apparentemente condiviso, non trova quasi mai applicazione.
La decarbonizzazione dell’economia rappresenta un grande banco di prova. Come avverte – tra gli altri – il premio Nobel per l’economia 2018, William Nordhaus, un approccio razionale al cambiamento del clima e alla riduzione delle emissioni passa per un adeguato pricing del carbonio. Le modalità con cui questo può avvenire sono diverse – per esempio l’introduzione di una carbon tax o di uno schema di cap and trade, o un ibrido tra le due – ma fondamentalmente l’obiettivo è quello di assegnare al prezzo dei beni una corretta funzione allocativa. Nel momento in cui i diversi prodotti vengono offerti a un prezzo che ne incorpora tutti i costi (inclusi quelli ambientali) sarà poi il libero funzionamento del mercato a influenzare tecnologie e comportamenti nella direzione desiderata.
Questo approccio così razionale trova riscontro nelle linee guida sugli aiuti di Stato in materia di energia, in vigore dal 1 luglio 2014 all’interno dell’Unione europea. Uno dei principi individuati per garantire la compatibilità degli aiuti coi principi generali dell’ordinamento in materia di concorrenza è quello della neutralità tecnologica. In altre parole, le politiche non dovrebbero sostenere pregiudizialmente la tecnologia x, quando lo stesso obiettivo ambientale (per esempio, la riduzione della CO2) potrebbe essere raggiunto in modo altrettanto (o più) efficace attraverso la tecnologia y, o z.
Sono molti i casi in cui gli Stati membri hanno seguito una logica diversa. Per esempio, nell’ambito della produzione elettrica, il sostegno alle fonti rinnovabili (obbligatorio nell’ambito del Piano Clima-Energia e, prima, del cosiddetto 20-20-20) è stato generalmente assegnato attraverso incentivi differenziati per tecnologia. In tal modo, la quantità di installazioni fotovoltaiche, eoliche, di biomasse ecc. nei diversi Stati membri non è, in generale, dipesa dalla maggiore o minore competitività delle singole fonti: è stato piuttosto il frutto di una scelta politico-amministrativa. Analogamente, nel caso della mobilità sostenibile, il mix di tecnologie che possono condurre a una riduzione dell’inquinamento è variegato: dalla maggiore efficienza delle motorizzazioni alla diffusione dei biocarburanti, da forme diverse di mobilità (per esempio il trasporto pubblico o il car- o ride-sharing) fino ai carburanti alternativi (elettrico, metano/Gpl o idrogeno).
Tuttavia, invece di perseguire una politica di competizione tra le diverse tecnologie, penalizzando la produzione di inquinamento, gli Stati membri dell’Unione si sono spesso dotati di una congerie di politiche, la cui interazione genera risultati controintuitivi e a volte difficili da comprendere, in quanto le stesse soluzioni che vengono incentivate con una mano sono scoraggiate con l’altra. Perfino nei casi in cui la politica compie una scelta, non di rado le norme concrete si infilano in una serie di dettagli che nei fatti favoriscono soggetti specifici. Un esempio virtuoso, allora, sono le aste neutre bandite – tra gli altri – dalla Germania e dalla Spagna per le rinnovabili elettriche. Un caso discutibile è, al contrario, il sostegno mal disegnato alla mobilità elettrica, che non solo rischia di far eclissare le alternative, ma sovente è congegnato in modo tale da produrre situazioni di monopolio sia nella realizzazione dell’infrastruttura, sia nell’erogazione del servizio.
Per evitare questi fenomeni – spesso sul filo della “cattura del regolatore” – sia la politica ambientale, sia quella industriale andrebbero assoggettate a un rigoroso vaglio nell’ottica della concorrenza.