A 20 anni dalla pubblicazione del D.Lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997, comunemente noto come “Decreto Ronchi”, si può fare una riflessione sui contenuti e sugli effetti prodotti da quella normativa anche per trarre spunti e riflessioni utili per l’imminente recepimento nell’ordinamento nazionale del pacchetto di Direttive europee in materia di rifiuti-circular economy che entreranno in vigore il prossimo 4 luglio.
La priorità del riciclo fu un cardine del disegno del D.Lgs. 22/97: priorità che richiedeva il raggiungimento di livelli elevati di raccolta differenziata. Quando fu avviata la riforma, la raccolta differenziata dei rifiuti urbani era marginale, mentre lo smaltimento in discarica era la modalità di gestione dei rifiuti più diffusa perché appariva il sistema più semplice e – sottovalutando i costi ambientali – anche il meno oneroso.
Ma quali risultati ha dato la riforma? Nel 1997 venivano smaltite in discarica 21,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani (80%); nel 2016, anche se i rifiuti urbani prodotti sono aumentati a 30,1 milioni di tonnellate, quelli smaltiti in discarica sono scesi a 7,4 milioni di tonnellate (25%). La raccolta differenziata dei rifiuti urbani è aumentata dal 9,4% del 1997 al 52,5 % del 2016, da 2,5 milioni di tonnellate a 15,8 milioni di tonnellate (Dati Ispra).
Anche il sistema italiano di gestione dei rifiuti d’imballaggio ha prodotto buoni risultati: l’avvio al recupero degli imballaggi è salito dal 33% del 1997 al 78,2% dell’immesso al consumo nel 2016 e l’avvio a riciclo ha superato l’obiettivo del 65% sull’immesso al consumo (siamo al 67%) che la nuova Direttiva europea indica al 2025 e non dovrebbe avere particolari difficoltà nemmeno a raggiungere il 70% al 2030. Lo stesso si può dire per quasi tutte le singole filiere (della carta, del vetro, dei metalli e del legno). Le uniche difficoltà si riscontrano nel passare dall’attuale 41% di riciclo delle plastiche al 50% al 2025, per l’aumento dell’utilizzo di imballaggi fatti con plastiche miste, più difficili da riciclare.
Relativamente ai rifiuti speciali, nel 1997 risultavano ufficialmente prodotti circa 61 milioni di tonnellate di rifiuti speciali. Secondo l’ultimo Rapporto ISPRA sui rifiuti speciali del 2018 la quantità prodotta di tali rifiuti è notevolmente aumentata: 135 milioni di tonnellate nel 2016. Il riciclo/recupero di materia dei rifiuti speciali è cresciuto, sempre secondo i dati ISPRA, dai 13 milioni di tonnellate del 1997 ai 91,8 milioni del 2016. E nonostante la fortissima crescita delle quantità prodotte, anche lo smaltimento in discarica dei rifiuti speciali è sceso da 21 milioni di tonnellate del 1997, a 12,1 milioni di tonnellate del 2016. Questi cambiamenti ci hanno fatto risalire dalla coda alla testa nella classifica europea della gestione dei rifiuti speciali.
Una delle spinte alla svolta italiana nella gestione dei rifiuti speciali è stata l’introduzione, con la riforma del D.Lgs. 22/97, di procedure semplificate di recupero (che sono state spesso utilizzate anche come riferimento per le procedure ordinarie di autorizzazione delle attività di recupero a livello regionale) che si sono dimostrate una delle più efficaci misure di economia circolare praticate in Italia. Tali procedure, già utilizzate nel nostro ordinamento anche come regolazione “end of waste”, costituiscono un punto di riferimento acquisito dal nostro sistema di gestione dei rifiuti anche per l’attuazione della nuova direttiva che affida ai singoli Stati, sulla base di alcuni criteri comunitari, la regolazione delle attività di riciclo che portano a produrre materie prime e beni, non più rifiuti.
Al netto di questi importanti traguardi raggiunti vi sono alcune importanti città dove la raccolta differenziata presenta ritardi quantitativi e qualitativi e dove c’è una carenza di impianti, in particolare di compostaggio. Questo comporta uno smaltimento fuori regione (a volte i rifiuti vengono inviati anche all’estero) con rilevanti costi, economici e ambientali, di trasporto. La raccolta differenziata (RD) nazionale è al 52,5% nel 2016, ma è una media composta dal 64,2% di RD al Nord, 48,6% al Centro e 37,6% al Sud. E anche il Sud non è più omogeneo. La Sardegna, ad esempio, è al 60%, la Campania al 51,6%, mentre rimangono particolarmente arretrate la Puglia (34,3%), il Molise (28%), la Calabria (33,2%) e la Sicilia (15,4%).
A cosa è dovuto il ritardo di queste Regioni? Principalmente dalle carenze tecniche e di indirizzo politico di alcune amministrazioni regionali e comunali. Alcune amministrazioni regionali, infatti, sono in ritardo e carenti sia nella pianificazione e programmazione, che nel supporto tecnico e finanziario ai Comuni.
Si registrano mancanze strutturali di impianti di compostaggio soprattutto al Centro e al Sud del Paese. Questa mancanza era già evidente nel 1999 quando, secondo i dati ISPRA, ben 9 Regioni, di cui 6 al Sud e 2 al Centro, non avevano impianti di compostaggio attivi. Nel corso degli anni sono stati attivati numerosi impianti di trattamento della frazione organica (impianti di compostaggio, impianti integrati compostaggio/digestione anaerobica, impianti di digestione anaerobica), che sono passati dai 137 del 1999, ai 274 del 2016. Questi impianti, però, hanno una capacità non sufficiente a gestire la crescita della raccolta di rifiuti organici che è passata da circa 1,1 milioni di tonnellate del 1999, a 6,5 milioni di tonnellate nel 2016.
Da questa analisi, quindi, emerge che nel corso di questi 20 anni la gestione dei rifiuti si è strutturata come un vero e proprio settore industriale, sganciandosi dalla visione di un’attività di mera igiene ambientale che preleva e distrugge gli scarti prodotti da utenze domestiche e realtà produttive.
I rifiuti sono visti sempre di più come una risorsa per nuovi investimenti, per la produzione di materiali e altri beni e per nuova occupazione. A questa nuova visione ha contribuito anche un cambiamento culturale, tuttora in corso, da parte della politica e delle imprese, che ha consentito di diffondere una maggiore consapevolezza sugli impatti delle attività umane e sulle opportunità offerte dalla green economy, oltre ad una crescente sensibilità ambientale da parte dei singoli, che premiano scelte politiche e commerciali che perseguono uno sviluppo sostenibile.
È necessario sottolineare che all’inizio di questa fase di recepimento delle nuove direttive è auspicabile che i diversi aspetti dalla gestione dei rifiuti vengano riformati in modo sistemico evitando, come spesso è accaduto nella legislazione ambientale in Italia, di modificare singole parti in modo scoordinato, senza valutare le implicazioni generali.
Al nuovo quadro definito dall’Europa va anche aggiunto il ruolo dato all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (ARERA), per concorrere a migliorare il sistema di regolazione del ciclo dei rifiuti, garantire adeguati livelli di qualità in condizioni di efficienza ed economicità della gestione, e garantire l'adeguamento delle infrastrutture agli obiettivi imposti dalla normativa europea, superando così le procedure di infrazione già avviate.
Il rinnovamento delineato a livello europeo e nazionale dovrà, inoltre, spingere le Regioni a recuperare al più presto i ritardi nella pianificazione in modo da individuare per tempo le soluzioni ai gap impiantistici eventualmente presenti. Il recupero dei ritardi in alcune città importanti e nelle Regioni del Sud sarà fondamentale anche per poter raggiungere i nuovi e più impegnativi obiettivi minimi europei fissati dalla nuova Direttiva quadro: riciclo dei rifiuti urbani del 55% entro il 2025, del 60% al 2030 e del 65% entro il 2035 e abbattimento sotto il 10% dello smaltimento in discarica.
A 20 anni dal Decreto Ronchi e alla luce delle nuove direttive, l’Italia ha l’opportunità di riformare in modo organico il settore della gestione dei rifiuti, allineandolo ai principi dell’economia circolare, e di migliorare, e possibilmente eliminare, gli aspetti ancora critici di questo settore. Se correttamente recepite e attuate, le nuove direttive europee consentiranno di valorizzare le eccellenze raggiunte in Italia nel riciclo e di generare una forte spinta alla transizione alla green economy, paragonabile a quella avviata 20 anni fa.