Barack Obama lascia al continente europeo un’eredità politica scottante, su cui, almeno per il momento, l’amministrazione Trump non sembra interessata a intervenire. La dottrina Obama ha teorizzato – e praticato – l’uscita degli Stati Uniti da quelle aree dove considerava dannoso l’utilizzo diretto della forza per la preservazione del potere e del prestigio americani e lo spostamento degli interessi strategici del paese verso il quadrante Asia-Pacifico. Contestualmente, l’Europa ha assistito alla crescita dell’idra jihadista, alla trasformazione in emergenza dei flussi migratori e alla messa in discussione del progetto di integrazione europea (Brexit, progressiva affermazione di partiti anti-europeisti). Dall’ambiente internazionale circostante, d’altro canto, non sono arrivati segnali più tranquillizzanti. I confini dei paesi membri della NATO e dell’UE sono minacciati sempre di più da guerre civili aperte o striscianti (Libia, Siria, Iraq, Ucraina, Caucaso meridionale) e dall’instabilità di medie potenze particolarmente rilevanti per i loro equilibri (Turchia, Egitto). Senza contare che l’impropriamente detta “nuova” Guerra fredda tra Stati Uniti e Russia è stata foriera di rischi e sacrifici per i paesi europei, legati ai primi per la sicurezza militare e alla seconda per quella energetica.

All’interno di un contesto regionale con tali caratteristiche, il problema della sicurezza nazionale appare stretto da un doppio nodo a quello dell’energia. Da un lato, perché i profitti derivanti dalla vendita di gas (e/o di petrolio), così come i risparmi prodotti da una sapiente diversificazione di fornitori e fonti di energia, assumono contorni tanto ampi da risultare cruciali per le possibilità di investimenti nel settore della sicurezza. Dall’altro, perché la destabilizzazione di uno Stato o di intere aree può comportare non solo danni economici, ma anche l’aumento dell’esposizione strategica dei paesi partner, siano essi fornitori o consumatori. Tale interdipendenza è difficilmente superabile, in quanto legata alla struttura particolarmente rigida del mercato del gas rispetto a quello del petrolio.

A causa della spirale di violenza che avvolge il Medio Oriente e Nord Africa (MENA) e in presenza di pochi impianti di rigassificazione nel Mediterraneo, i principali progetti sul tavolo – Nord Stream II, Turkish Stream e TAP – riguardano le pipeline che corrono dallo Spazio post-sovietico verso Occidente.

In questa prospettiva è necessario considerare congiuntamente i progetti Nord Stream II e Turkish Stream, il primo ideato per affiancare il Nord Stream I nel suo percorso dalla costa baltica della Russia fino al porto tedesco di Greifswald, mentre il secondo per connettere la regione russa di Krasnodar alla Tracia turca via mar Nero. I due nuovi gasdotti, infatti, appartengono a uno stesso disegno strategico con cui Gazprom – ovvero il Cremlino – punta a liberarsi dal potenziale di ricatto dei paesi di transito (Bielorussia, Polonia e Ucraina) e dall’onere delle royalty, nonché a garantire forniture dirette e, quindi, più stabili all’Europa centro-occidentale. La realizzazione di questi progetti, tuttavia, presenta alcune rilevanti criticità. Il primo incontra la resistenza degli Stati Baltici e della Polonia, che hanno a più riprese bollato l’intesa tra Mosca e Berlino come una riedizione del patto “Molotov-Ribbentrop” e cercano di far pesare la loro contrarietà nell’ambito delle istituzioni europee. Il secondo, dal canto suo, è soggetto all’andamento dei rapporti russo-turchi, diventati sempre più altalenanti a seguito dell’ingresso delle forze armate russe sullo scacchiere mediorientale (settembre 2015). Turkish Stream, infatti, è stato dapprima chiuso in un cassetto per via dell’abbattimento del cacciabombardiere SU-24 nello spazio aereo tra la Siria e la Turchia, per poi essere rispolverato dopo il fallito golpe in Turchia dello scorso 15 luglio e il precipitare delle relazioni tra Washington e Ankara.

Quali scenari si delineerebbero se i due gasdotti fossero realizzati? La prima e più evidente conseguenza sarebbe il depotenziamento (o l’annullamento) del ruolo dei gasdotti russi che raggiungono l’Europa onshore. L’Ucraina, in particolare, ne farebbe le spese, in quanto i cessanti guadagni del transito dei gasdotti sul suo territorio e il probabile ripristino di prezzi di mercato sulle sue forniture potrebbero generare una nuova stagione di instabilità politica per il paese. Una seconda conseguenza “maggiore” sarebbe l’immediato aumento dell’influenza politica ed economica tedesca sul Vecchio Continente. La Germania diventerebbe il principale hub di Gazprom in Europa e avrebbe per le mani un – ulteriore – efficace strumento di influenza non solo sui paesi dell’Europa orientale, ma anche sulla Francia e l’Austria (non sull’Italia che svolge la stessa funzione per i fornitori della sponda sud del Mediterraneo). Questa evoluzione sarebbe ancor più rafforzata da una terza conseguenza della realizzazione combinata di Nord Stream II e Turkish Stream: la scelta russa di Ankara come principale partner sul versante meridionale. La Turchia sfilerebbe questo ruolo all’Italia, che, invece, sarebbe uscita rafforzata se fosse stata attribuita priorità al progetto South Stream, che le avrebbe permesso di costituire un contrappeso nella dimensione energetica alla Germania all’interno dell’Unione Europea1. Le sorti di quest’ultima, inoltre, dipenderebbero sempre di più dal paese guidato da Recep Erdogan, che negli ultimi anni ha dimostrato un’estrema spregiudicatezza politica nel trattare i molti capitoli rilevanti per la sicurezza del nostro continente (lotta al terrorismo e gestione dei migranti).

Il corridoio meridionale, tuttavia, presenta maggiori alternative rispetto a quello settentrionale. In questo secondo quadrante, infatti, si inserisce anche il progetto TAP, che dalla frontiera greco-turca, attraversando Grecia e Albania, dovrebbe far approdare in Italia il gas azero (collegandosi al TANAP e al South Caucasus Pipeline). Sebbene la capacità del TAP non rivoluzionerebbe gli equilibri energetici del continente, l’Unione Europea gli ha attribuito lo status di Progetto di Interesse Comune (PCI), secondo le nuove linee guida TEN-E (Trans-European Energy infrastructure). L’obiettivo di Bruxelles, infatti, è garantire la maggiore differenziazione possibile dei fornitori dell’UE, per evitare che si crei una situazione di eccessiva dipendenza del continente rispetto ad alcuni paesi esterni all’Unione. Dal punto di vista dell’Italia, invece, la valenza strategica del TAP è di gran lunga maggiore. Il progetto, infatti, concorre a confermare la sua centralità quale terminale delle forniture che arrivano da sud e da sud-est. L’opposizione di movimenti NIMBY e una campagna mediatica avversa, tuttavia, rischiano di far perdere al nostro paese questo ruolo, tanto che ultimamente è emersa l’ipotesi dello Ionian Adriatic Pipeline (IAP), che porterebbe il gas azero in Europa via Montenegro, Albania, Bosnia e Croazia2.

I lineamenti generali della partita in gioco sui nuovi gasdotti, seppur sinteticamente delineati, permettono comunque di comprendere l’essenza del – talvolta abusato – concetto di “geopolitica del gas”. Nonostante le sue dinamiche siano state sempre rilevanti per la sicurezza degli Stati europei, oggi più che mai si trovano all’ordine del giorno. La dipendenza energetica dell’Europa, gli interessi dei singoli paesi membri e i loro rapporti di forza, infatti, devono essere letti alla luce di due fattori destinati a modificare gli equilibri emersi sul continente dopo la fine della Guerra fredda: il retrenchment strategico degli Stati Uniti attuato da Obama e confermato – per il momento – da Trump e la rinnovata politica di potenza russa. 

*Antonello Folco Biagini (Professore Ordinario di Storia dell’Europa orientale, Sapienza Università di Roma) e **Gabriele Natalizia (Ricercatore di Scienza politica Link Campus University)

Note

1 Si veda F. Anselmo www.geopolitica.info/turchia-hub-del-gas

2 Si veda D. Pommier Vincelli www.geopolitica.info/lalleato-azero-storia-character-assassination