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La riduzione della CO2 nei trasporti è un obiettivo ambientale legato alla lotta ai cambiamenti climatici ed è cosa ben differente da quello della qualità dell’aria, che riguarda invece particolari tipi di inquinanti dannosi per l’uomo. Il primo è un obiettivo di lungo periodo che va affrontato con azioni coordinate a livello globale, mentre per il secondo servono risposte immediate a livello locale.
Nella fase di transizione che sta attraversando il sistema dei trasporti a livello mondiale il tradizionale motore a combustione interna compare spesso nel ruolo di imputato per le sue emissioni di sostanze tossiche e di gas ad effetto serra. Questo atteggiamento di diffidenza, particolarmente accentuato circa i motori diesel, ha raggiunto il suo apice negli ultimi tre anni a seguito dello scandalo cosiddetto “Dieselgate”. In realtà, varie ragioni hanno contribuito a minarne la fama, incentivando la ricerca di soluzioni alternative per una propulsione sostenibile.
Come leggere i flussi energetici in termini di economia circolare? Da un lato abbiamo i combustibili fossili che rappresentano il paradigma del modello lineare usa e getta. Il loro impiego, infatti, genera emissioni che, oltre alle conseguenze locali, sono direttamente responsabili della principale emergenza ambientale planetaria, quella del cambiamento climatico. Anche il nucleare presenta notevoli criticità nella chiusura dei cicli, come ci ricordano i problemi legati allo smantellamento delle centrali e al confinamento per decine di migliaia di anni delle scorie radioattive.
Ripensare radicalmente i processi di produzione industriale e contribuire ad un cambio di mentalità che porti a vedere nei rifiuti nuove risorse continuamente riutilizzabili. Sono questi i presupposti fondamentali su cui si basa la transizione verso un modello di economia circolare, fondamentale per “estendere” la vita di materie prime e risorse naturali attraverso il riciclo, il riuso, una maggiore durata dei prodotti (per il tramite di una progettazione più efficace che ne favorisca la riparabilità) e grazie alla condivisione.
Il peso del riscaldamento domestico nel bilancio delle emissioni inquinanti è ormai ben noto e generalmente accettato. Le ragioni sono da ricercarsi nella sua capillare diffusione, che si estende dalla grande città al piccolo paese di montagna; emerge spesso che proprio nelle aree lontane da insediamenti industriali o dagli effetti del traffico i livelli di inquinamento dell’aria siano tutt’altro che trascurabili.
D’altro canto, non tutti i combustibili impiegati inquinano allo stesso modo: i dati ISTAT (2014) ci dicono che più del 70% delle famiglie italiane usa il metano per riscaldarsi ma il contributo preponderante alle emissioni, in special modo di PM10, è da attribuirsi all’utilizzo domestico delle biomasse (stufe e caminetti che impiegano legna da ardere e pellet).
L’inquinamento dell’aria nelle nostre città continua a fare vittime, e non poche, nonostante i miglioramenti registrati in molte aree del mondo, a cominciare dall’Europa. Numeri che portano a considerare questo fenomeno una vera e propria pandemia, come è stata chiamata nella ricerca della Fondazione per lo sviluppo sostenibile presentata da meno di un mese “La sfida della qualità dell’aria”. Nel mondo ogni anno milioni di persone muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico e 9 persone su 10 vivono in luoghi con livelli di inquinamento più alti di quelli raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Europa i tre inquinanti a maggiore criticità – particolato atmosferico, biossido di azoto e ozono – annualmente sono responsabili di oltre mezzo milione di decessi prematuri, più di 20 volte il numero delle vittime di incidenti stradali.
Nell’Unione Europea, il crescente consumo di biomassa per il riscaldamento degli ambienti domestici – ma più in generale anche per la produzione di energia - è ascrivibile sia a politiche di risposta al cambiamento climatico che favoriscono il ricorso a fonti di energia rinnovabile che, in alcuni casi, a ragioni di convenienza economica, specie laddove si rilevano condizioni di povertà energetica e la materia prima può essere raccolta a livello locale. Tuttavia, questo aumentato e crescente utilizzo è fonte di preoccupazione per via del rilevante contributo della biomassa alle emissioni di particolato (PM -Particulate Matter) rilasciate durante la combustione e ritenute pericolose per la salute umana.
Il gas si conferma la principale fonte per l’uso riscaldamento, tanto in Italia quanto in Europa. Se nel nostro paese, o più in generale nel Vecchio Continente, la scelta è prevalentemente di natura tecnologica e/o economica, altrove il tema assume anche una dimensione sociale. Nei paesi in via di sviluppo, infatti, il numero di persone prive di accesso a servizi energetici moderni è ancora molto elevato e negli anni a venire il gas – insieme a GPL, elettricità e nuove rinnovabili – potrebbe assumere un ruolo determinante nella riduzione della povertà energetica.
Secondo i risultati del recente studio Innovhub, è stato confermato l’impatto negativo in termini ambientali e sanitari degli impianti alimentati a biomassa legnosa per l’utilizzo nel settore del riscaldamento, a fronte di performance positive dei combustibili gassosi. Il riscaldamento a gas è quindi la soluzione migliore per le famiglie italiane?
Lo studio di Innovhub presentato a Milano il 23 ottobre ha ulteriormente indicato con dati tecnici alla mano il forte contributo negativo delle biomasse all’inquinamento atmosferico, con i conseguenti danni per la salute umana.
Una possibile soluzione per far fronte alla sempre crescente domanda idrica e al deterioramento quali-quantitativo delle tradizionali fonti di approvvigionamento - oltre/dopo/insieme aver messo in campo azioni di aumento dell’efficienza distributiva e di contenimento della domanda - è quella di ampliare l’offerta idrica facendo ricorso a fonti “non convenzionali” quali quelle connesse al riuso e alla dissalazione. Del resto, mari e oceani rappresentano la principale riserva di acqua nel globo e, negli ultimi anni, la possibilità di accedervi è significativamente aumentata in ragione dell’evoluzione nei processi tecnologici connessi e delle accresciute complessità ambientali nel reperire nuove fonti di approvvigionamento idrico.