Considerando l’imperversare della pandemia e il conseguente crollo dei consumi, il prezzo del petrolio nel 2020 si è comportato abbastanza bene, eccezion fatta per quel terribile lunedì di fine aprile, quando un contratto in scadenza del WTI andò a finire per scambi maldestri virtualmente sottozero. Allora in tanti si chiesero se qualcosa sarebbe cambiato per sempre per il mercato petrolifero, ma in realtà – a parte una presa di coscienza da parte di alcuni trader improvvisati sulla complessità del mercato petrolifero – non è cambiato un bel niente.
Nell’anno che si chiude abbiamo assistito a una brusca frenata dei consumi petroliferi che ci ha fatto tornare indietro di trent’anni. I consumi di benzina sono calati di oltre il 20% e quelli di gasolio del 17%. Alla luce dell’esperienza vissuta nel 2020 può essere utile fare qualche riflessione su alcuni slogan e sulle politiche volte a ridurre l’impatto ambientale del settore energetico.
Tra i fattori di competitività del nostro Paese si tende spesso a dimenticare un dato legato al mix energetico nazionale. Non si tratta del mancato affrancamento dalle fonti fossili, che ancora oggi soddisfano oltre il 70% della domanda primaria, quanto della drammatica dipendenza da fonti energetiche provenienti dall’estero. Una nazione è tanto più a rischio quanto più alta è la sua dipendenza energetica e tanto più le importazioni provengono da limitati paesi fornitori, tendenzialmente con una bassa stabilità geopolitica.
Nel 2020, a fronte di una caduta del consumo di energia del 5%, la domanda di petrolio ha registrato un crollo senza precedenti di circa l’8%, dai 98 milioni di barili al giorno (mb/g) del 2019 ai 90 mb/g di quest’anno. La domanda di gas naturale ha mostrato maggiore resilienza, con una contrazione del 3%.
Secondo l’AIE le diverse reazioni alla crisi delle fonti energetiche dipende dal loro impiego in diversi settori dell’economia.
Per aver contezza dei problemi da superare per conseguire gli obiettivi dell’Accordo di Parigi o del Green Deal europeo penso che il criterio cui attenersi debba essere quello di dire le cose come stanno. Anche se possono dispiacere. Le cose stanno che ‘transizione energetica’ e ‘decarbonizzazione’ non si sono ad oggi materializzati. Nei trascorsi venti anni, il passaggio al dopo-fossili non ha fatto un alcun passo in avanti: col loro peso nei consumi primari di energia aumentato dall’80% all’81% e nella generazione elettrica diminuito di appena 2 punti dal 65% al 63% (dati AIE). Idem per quanto riguarda la decarbonizzazione con l’intensità carbonica (CO2/tep) rimasta stabile nei consumi primari e addirittura aumentata nell’elettricità.
Ci si interroga di frequente su quel che sarà dell’energia dopo il virus; e sembra prevalere l’ipotesi per cui il virus favorirà, e anzi accelererà, la decarbonizzazione. Il tema viene di regola interpretato in due tonalità. La prima è che il virus dimostra l’insostenibilità del nostro “sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura del creato” (la citazione è di Papa Francesco), e che perciò ci impone quasi normativamente un abbandono del nostro modo di addomesticare energia fossile. La tonalità alternativa declina invece più laicamente il modo in cui il lockdown ha cambiato comportamenti ed abitudini; e ne deriva che il dopo virus non sarà un ritorno alla normalità del passato, ma il graduale affermarsi e consolidarsi di una “nuova normalità” meno fossile e oggi ancora in divenire.
A quattro mesi dalla fine dell’anno, si può cominciare a trarre un primo bilancio dell’impatto che la diffusione del Covid-19 ha avuto a livello globale e delle conseguenze disastrose sul piano economico e dell’occupazione che ne sono derivate. Una crisi anomala anche per l’industria energetica che, forse per la prima volta da quando l’energia è diventata fattore cruciale dello sviluppo, non ha avuto alcuna responsabilità e che anzi è stata annoverata tra le principali vittime.
L’Italia ha una lunga tradizione nella raffinazione e per molti anni è stata considerata il “raffinatore d’Europa”. Nell’immediato dopoguerra molti nuovi attori si affacciarono sul mercato grazie ad una restituita libertà di azione che, in primo luogo, interessò proprio l’industria della lavorazione e trasformazione del petrolio, sia attraverso interventi di potenziamento dell’esistente che con nuove realizzazioni (Augusta, Genova, Ravenna). Nel 1950 erano già in attività 22 impianti rispetto ai 10 del 1938, per una capacità di lavorazione di 7 milioni di tonnellate, a fronte di consumi intorno ai 4 milioni di tonnellate.
Guardando al passato, lo sviluppo tecnologico dell’industria della raffinazione è stato graduale e costante. Quando si sono presentate sfide, la capacità di riposizionamento è stata determinata soprattutto dalla disponibilità di risorse finanziare e dalla capacita di giustificare investimenti.
Ora va profilandosi una nuova importante sfida ed è quella della decarbonizzazione, vista anche come una sfida tra sviluppi tecnologici, alcuni dei quali porterebbero alla produzione di forme di energia che bypassano completamente il sistema della raffinazione.
Negli ultimi mesi due grandi fattori hanno condizionato le strategie future del mondo della raffinazione: la guerra dei prezzi all'interno dell’“Opec plus” ed il calo drastico dei consumi per effetto della pandemia.
Nel primo caso, come è noto, l'altalena sui prezzi, le influenze geopolitiche, la poca chiarezza e trasparenza sulle posizioni statunitensi e russe, hanno pesantemente condizionato le quotazioni ed i conseguenti margini di raffinazione.